Draghi all'Europa: "O cambi, o è finita"

- di: Redazione
 
L'Europa deve prendere consapevolezza che, per affrontare le prossime sfide, soprattutto in campo economico, è necessario un cambio di passo. Non una semplice accelerazione, ma uno scatto in avanti che si traduca in un cambiamento radicale, quello necessario per affrontare una sfida che ha in gioco l'esistenza stessa dell'Ue.
La posizione di Mario Draghi è nota da sempre, così come la sua mancanza di elasticità quando deve fare delle proposte, presupponendo una analisi della situazione.
E lui, rispondendo al mandato, conferitogli lo scorso anno da Ursula von der Leyen, di redigere un rapporto sulla competitività europea non si è limitato ad un ''compitino'', distribuendo segni rossi o blu, ma è andato dritto al cuore del problema, analizzando l'esistente, ipotizzando quale potrebbe essere il futuro (tetro) e, quindi, illustrando la sua ricetta che, nel rispetto del suo passato, è chiara, sin troppo per una struttura, quella politico-economica dell'Ue, che rischia di non saperla o poterla metabolizzare.

Draghi all'Europa: "O cambi, o è finita"

Oggi, presentando le sue conclusioni sul problema della competitività, Mario Draghi, obbedendo al modello che da sempre lo contraddistingue, non si è celato dietro la realpolitik, non ha cercato giri di parole, a costo di apparire (come forse qualcuno già pensa) catastrofista, di essere facile profeta di sventure, quando magari non ha alcun posto di responsabilità e quindi chiedendo agli altri di agire.
Mario Draghi ha, invece, scavato nel cuore del problema, partendo dal presupposto che, quali che siano le sfide che l'Ue si troverà ad affrontare, esse non devono passare per la rinuncia ai tratti caratteristici dell'Unione, a quei principi sui quali l'Europa comunitaria si è fondata e ai quali non può rinunciare.
Davanti alla prospettiva di dovere operare delle scelte, sapendo che in gioco ci sono i cardini dell'Unione - dare ai cittadini migliori condizioni di vita, basandosi su principi irrinunciabili quali il rispetto dei diritti di tutti perseguendo la pace e, con essa, la democrazia -, l'Europa ha una sola strada: ''Crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente''.

Cambiare per non sparire e, quindi, prendendo atto delle proprie debolezze, superandole con un grande processo, quasi rivoluzionario, che passa attraverso la competitività, oggi il punto più fragile dell'architettura dell'Ue.
''Se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere" - ha detto Draghi-. "Non potremo diventare contemporaneamente leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni''.
Da uomo pratico, Draghi non s'è limitato all'analisi (seppure cruda), indicando tre passaggi essenziali per il futuro dell'Europa come organismo transnazionale: innovazione, decarbonizzazione e sicurezza. E qui il riferimento sembra essere alla incapacità dell'Ue di dotarsi di una regia efficace e condivisa per il conseguimento dei propri obiettivi; una mancanza che oggi incide sulla mancata omogeneità delle politiche industriali.
Ma pochi progetti sono a costo zero (praticamente nessuno) e a questa evidenza risponde anche l'idea che Draghi si è fatta dell'Europa prossima ventura, se si vuole conseguire il risultato della digitalizzazione e di una economia green. Obiettivi che impongono, secondo l'ex presidente della Bce, un aumento sostanziale della quota di investimenti, con circa 5 punti percentuali del Pil, cercando di raggiungere i livelli che caratterizzano gli anni '60 e '70.

Draghi non è voluto restare nel vago, sgombrando il campo da una possibile indeterminatezza sui costi, avendo ben presente che parliamo di cifre enormi. In proposito Draghi ha voluto fare un confronto con gli investimenti aggiuntivi del Piano Marshall (con il quale, tra il 1948 e il 1951 gli Stati Uniti contribuirono alla ricostruzione dell'Europa dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale).
All'epoca gli investimenti aggiuntivi ammontavano a circa l’1-2% del Pil. Quindi meno della metà di quel che, per Draghi, sarà necessario investire in Europa. Ma non basterà il risparmio privato, anche se è urgente il completamento dell’Unione del Mercato dei capitali.

Se, per Draghi, ''l’aumento della produttività è fondamentale'', avendo anche ''implicazioni per l’emissione di beni comuni sicuri'', per ottenere una massimizzazione della produttività saranno necessari ''alcuni finanziamenti congiunti per gli investimenti in beni pubblici europei fondamentali, come l’innovazione di punta''.
Ma il quadro dell'Europa da cui Draghi fa partire la nuova visione dell'Ue parte da alcuni punti fermi, sanciti dalla qualità dei sistemi educativi e dai Servizi sanitari nazionali, anche se, dice, ''collettivamente non riusciamo a convertire questi punti di forza in industrie produttive e competitive sulla scena mondiale'', Da qui l'esigenza e anche l'urgenza di ripensare gli sforzi collettivi, passaggio obbligato per ricucire il gap, soprattutto tecnologico, con gli Stati Uniti e la Cina, dove paghiamo la sussistenza di una ''struttura industriale statica, con poche nuove imprese che si affermano per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita''.
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