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Bitcoin, quanto può scendere davvero il prezzo

- di: Matteo Borrelli
 
Bitcoin, quanto può scendere davvero il prezzo
Il re delle cripto barcolla dopo i massimi storici: tra Etf in fuga, leva che salta e modelli in tilt, dove passa davvero il pavimento del nuovo ciclo.

Bitcoin doveva brillare e invece sta perdendo quota proprio nel momento in cui il racconto lo voleva invincibile. Dopo i nuovi massimi storici di inizio ottobre oltre i 120 mila dollari, la regina delle criptovalute è scivolata nell’area tra 80 e 90 mila, con un novembre segnato da un calo superiore al 20 per cento e giornate di volatilità brutale. Il risultato è un paradosso evidente: l’asset nato per essere indipendente da banche centrali e cicli economici sembra muoversi sempre di più dentro le stesse logiche dei mercati tradizionali.

La domanda, ormai, non è più se Bitcoin sia entrato in una fase di correzione: questo è un dato acquisito. La domanda vera, quella che ossessiona trader, fondi e piccoli risparmiatori, è un’altra: fino a dove può davvero scendere il prezzo prima di trovare un pavimento credibile?

Il crollo di novembre: il mese che ha bucato il mito dell’anticorrelazione

Nel giro di poche settimane, dal picco di inizio ottobre, Bitcoin ha perso oltre il 30 per cento nei momenti peggiori, con affondi fino alla soglia degli 80 mila dollari e rimbalzi successivi che si sono fermati ben sotto i massimi recenti. Il tutto mentre i listini azionari statunitensi, trainati soprattutto dalla tecnologia, hanno ripreso a correre e gli investitori sono tornati a scommettere su un futuro taglio dei tassi da parte della banca centrale americana.

Questa divergenza ha azzerato, almeno per ora, il racconto secondo cui Bitcoin si sarebbe trasformato in una sorta di “oro digitale” capace di proteggere dai capricci di Wall Street. Al contrario, il movimento di novembre mostra un’asset class esposta e fragilissima nei momenti di brusca riduzione del rischio: quando gli operatori devono ridurre la leva e chiudere posizioni, le cripto finiscono spesso per essere vendute per prime.

“Non stiamo assistendo alla fine di Bitcoin, ma a una resa dei conti con la leva e con le aspettative esagerate accumulate nel corso dell’anno”, osserva un gestore specializzato su criptovalute di una grande società internazionale, sottolineando come una parte importante delle vendite sia arrivata da investitori indebitati e da fondi sistematici costretti a ridurre esposizione.

Etf e leva: la nuova trappola della liquidità

La grande novità di questo ciclo è stata l’esplosione dei fondi negoziati in Borsa legati direttamente a Bitcoin. Nei mesi successivi al lancio, gli Etf hanno attirato flussi miliardari, contribuendo a spingere il prezzo verso i massimi storici. A novembre, lo stesso canale ha iniziato però a funzionare al contrario: invece di assorbire domanda, è diventato un rubinetto da cui sono usciti miliardi di dollari.

Uscite così consistenti hanno un impatto diretto: i gestori devono vendere Bitcoin reali per restituire denaro agli investitori e questo alimenta il movimento ribassista. Allo stesso tempo, il calo del prezzo innesca margin call su chi aveva comprato in leva, generando una spirale che si autoalimenta.

“La grande illusione era che gli Etf istituzionali avrebbero reso il mercato più stabile. In realtà hanno moltiplicato la velocità con cui la liquidità entra ed esce”, commenta un analista di un importante broker di derivati, ricordando che per spingere verso l’alto un asset diventato così grande servono flussi positivi costanti e di dimensioni ormai enormi.

On-chain: quando i modelli si incrinano

Per anni il mondo cripto ha coltivato l’idea che l’analisi “on-chain” – cioè quella basata sui dati interni alla blockchain – potesse offrire una bussola infallibile per individuare i minimi di ciclo. Alcuni indicatori, come il rapporto tra profitti e perdite realizzati dagli investitori o il consumo di “coin days” (i giorni accumulati dalle monete non mosse e poi spesi), sembravano funzionare bene nelle fasi passate.

In questo ciclo, però, qualcosa si è incrinato. I numeri mostrano che i grandi detentori di lungo periodo hanno iniziato a distribuire monete già sopra i 120 mila dollari, approfittando dell’euforia, mentre i piccoli investitori sono entrati pesantemente a rialzo, spesso con leva, e stanno pagando il conto proprio ora che i prezzi si sono raffreddati.

In parallelo, gli indicatori che misurano il comportamento degli investitori di breve periodo segnalano una capitolazione diffusa nell’area tra 80 e 90 mila dollari: molte posizioni sono state liquidate in perdita, con gli speculatori costretti a chiudere trade apertissimi al picco dell’euforia. È un segnale che storicamente ha coinciso spesso con la parte centrale, non necessariamente finale, delle grandi correzioni di ciclo.

“I dati on-chain oggi raccontano soprattutto una redistribuzione: chi era entrato anni fa sta gradualmente alleggerendo, mentre nuovi compratori assorbono l’offerta in fasi di panico”, spiega un ricercatore che lavora su questi modelli per una piattaforma di analisi internazionale.

Dai modelli di valutazione ai cicli dell’halving

Un altro fronte su cui il consenso si sta sgretolando è quello dei modelli di valutazione “scientifici” di Bitcoin. Alcune stime che provano a legare il valore dell’asset al numero di utenti o alla dimensione della rete suggeriscono che il prezzo attuale resti ancora sopra la cosiddetta “fair value”, cioè la valutazione teorica di equilibrio. In altre parole: secondo questi approcci, ci sarebbe ancora margine per ulteriori discese senza uscire dalla normalità storica.

Chi ragiona per cicli guarda invece alla storia dei grandi ribassi successivi ai picchi delle bolle precedenti. I crolli più violenti del passato hanno visto drawdown anche superiori all’80 per cento, ma ogni ciclo ha mostrato una progressiva attenuazione della profondità delle discese, man mano che Bitcoin diventava più maturo, regolato e integrato nei portafogli istituzionali.

Su questo sfondo resta il tema chiave dell’halving, il meccanismo che riduce periodicamente la quantità di nuove monete emesse. In passato, nei 12-18 mesi dopo il dimezzamento della ricompensa per i miner, si sono spesso osservate fasi di forte apprezzamento dei prezzi. Nel ciclo attuale, però, il copione appare meno lineare: il boom c’è stato, ma più breve e compresso, mentre il ribasso è arrivato con sorprendente rapidità.

“L’halving non è una bacchetta magica”, sottolinea un economista che segue da anni l’evoluzione delle criptovalute, “ridurre l’offerta nuova aiuta se nel frattempo la domanda resta vivace. Se i grandi investitori escono o rallentano, l’effetto si annulla e il mercato entra in una fase di reset come quella che stiamo vivendo”.

I livelli chiave: 80 mila, 70 mila, 53 mila

Domanda inevitabile: esiste un numero sotto il quale la discesa di Bitcoin diventerebbe davvero allarmante? Gli analisti non sono d’accordo sui dettagli, ma diversi punti di riferimento tornano continuamente sui radar.

Primo livello: l’area degli 80 mila dollari. È la zona in cui si sono concentrati i minimi di novembre e in cui l’on-chain registra una forte attività di scambio tra mani deboli e mani più forti. Finché questa fascia tiene, il mercato può raccontarsi la storia di una grande correzione dentro un ciclo ancora vivo.

Secondo livello: i 70 mila dollari, cioè la vecchia area dei massimi storici del 2021. Se Bitcoin dovesse tornare stabilmente sotto quel livello, il messaggio psicologico al mercato sarebbe pesante: significherebbe che il super-ciclo post-Etf si è chiuso e che l’euforia recente è stata una parentesi più fragile del previsto.

Terzo livello: l’area dei 50-55 mila dollari. Qui molti modelli di valutazione di lungo periodo collocano una possibile “zona di equilibrio”, tenendo conto del numero di monete in circolazione, degli utenti attivi e della capacità della rete di assorbire transazioni. È anche un’area in cui, nei cicli precedenti, si è spesso formata una base importante prima delle ripartenze successive.

Scendere sotto questa fascia aprirebbe scenari molto più drammatici, con obiettivi teorici che qualche analista colloca addirittura tra 30 e 40 mila dollari. Si tratterebbe però, nella maggior parte degli scenari, di ipotesi legate a shock esterni estremi: una crisi regolamentare, problemi sistemici su grandi piattaforme, o una recessione globale profonda capace di azzerare temporaneamente la voglia di rischio degli investitori.

Macro, dollaro e banche centrali: il ruolo del mondo “fiat”

Al di là dei tecnicismi on-chain, la realtà degli ultimi mesi è brutale: Bitcoin si muove sempre più agganciato al clima generale di rischio dei mercati globali. Quando gli operatori temono che le valutazioni dell’high tech siano troppo tirate o che le banche centrali possano tenere i tassi alti più a lungo, la prima reazione è tagliare ciò che viene percepito come più speculativo.

In questo contesto, contano moltissimo anche il ruolo del dollaro e quello dei rendimenti obbligazionari. Quando il biglietto verde si rafforza e i titoli di Stato americani offrono rendimenti reali interessanti, diventa più difficile giustificare un’esposizione massiccia su asset che non pagano cedole e che possono perdere decine di punti percentuali in poche sedute.

“Finché il mondo tradizionale offre un’alternativa sicura con il 4-5 per cento l’anno, una parte degli investitori istituzionali preferirà spostarsi lì”, spiega un gestore obbligazionario europeo, ricordando che molti fondi sono vincolati da regole interne che limitano l’esposizione a strumenti tanto volatili quanto le criptovalute.

Fino a dove può scendere davvero: un problema di tempo, non solo di prezzo

La vera trappola, però, non è necessariamente il numero scritto sul book. È il tempo. Gli investitori che hanno vissuto i cicli passati lo sanno bene: il mercato cripto fa più male quando resta depresso a lungo, costringendo gli operatori a vendere per finanziare altre attività, pagare tasse, coprire debiti.

Non è un caso che molti professionisti parlino di “reset di liquidità” più che di crollo definitivo. La sensazione diffusa è che Bitcoin possa ancora scendere se l’ondata di uscite dagli Etf dovesse proseguire e se il clima di avversione al rischio dovesse peggiorare. Ma altrettanto chiaro è che sotto certi livelli iniziano a riattivarsi mani pazienti: fondi, family office, investitori di lungo periodo pronti a ricostruire posizioni a prezzi considerati più ragionevoli.

“Bitcoin oggi non è più il gettone di una nicchia di appassionati, ma un tassello di molti portafogli globali”, osserva un consulente finanziario che segue clienti ad alta patrimonializzazione, “questo non lo rende immune dai crolli, ma riduce la probabilità di uno scenario in cui il prezzo azzeri e scompare. Il rischio maggiore, per chi compra troppo in alto, è restare intrappolato per anni su valori che non tornano più”.

Cosa significa per chi è già investito (e per chi guarda da fuori)

Per chi è entrato sui massimi o poco sotto, il dilemma è feroce: vendere adesso e cristallizzare perdite consistenti, o resistere nella speranza che il ciclo rialzista non sia del tutto esaurito? Non esiste risposta facile e, soprattutto, non esiste una risposta uguale per tutti. La sola regola categorica è non trasformare un investimento in una scommessa disperata.

Chi è esposto in misura eccessiva rispetto al proprio patrimonio si trova oggi a dipendere dai capricci di un asset intrinsecamente instabile. Chi ha invece mantenuto una quota ragionevole può ragionare in termini più freddi: considerare scenari, valutare piani di ingresso graduale o di alleggerimento progressivo, accettare che anche un asset “di nuova generazione” possa attraversare fasi lunghe di anonimia.

Per chi osserva da fuori, il messaggio di questo novembre è ancora più netto: Bitcoin non è un biglietto della lotteria né una polizza anti-crisi garantita. È un asset altamente speculativo, inserito ormai a pieno titolo dentro i flussi globali di liquidità. Partecipare al gioco significa accettare la possibilità concreta che i prezzi continuino a scendere, magari fino a toccare le fasce di supporto più profonde di cui oggi si parla solo nei report tecnici.

La domanda sbagliata (e quella giusta)

Chiedersi “fino a dove può crollare Bitcoin” è, in fondo, la domanda meno utile. Nessuno può fissare con certezza il numero magico. Quello che si può dire con chiarezza è altro: esistono zone di prezzo in cui la storia dei cicli passati, i modelli di valutazione e i dati on-chain convergono nel segnalare un rischio più alto o più basso di ulteriori ribassi. Ma si tratta sempre di probabilità, mai di certezze.

La domanda giusta, quella che ogni investitore dovrebbe porsi oggi, è diversa: a quali condizioni – di prezzo, di tempo, di dimensione dell’investimento – sono disposto ad accettare la volatilità radicale di Bitcoin senza mettere in pericolo il resto della mia vita finanziaria?

Il meglio che si può dire, con onestà, è che Bitcoin può ancora scendere. Quanto, dipenderà da tre fattori: la durata del clima di avversione al rischio globale, l’andamento dei flussi negli Etf e la capacità degli acquirenti di lungo periodo di assorbire l’offerta che continua ad arrivare dal deleveraging. Il pavimento del nuovo ciclo non è un numero inciso nella pietra: è un equilibrio instabile tra queste forze. E, come sempre accade con Bitcoin, lo scopriremo solo a posteriori. 

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