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Non è solo una questione di tempo: bambini, schermi e salute mentale, la vera sfida è come li usano

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Non è solo una questione di tempo: bambini, schermi e salute mentale, la vera sfida è come li usano
Non bastano i limiti di tempo, né i consigli generici su quanto un bambino dovrebbe o non dovrebbe stare davanti allo schermo. A scompaginare la narrativa dominante è uno studio congiunto delle università di Columbia e Weill Cornell, pubblicato su Jama, che smonta l’assunto più diffuso nel dibattito pubblico e pedagogico: il tempo passato su smartphone, tablet, social network o videogiochi è importante, sì, ma non è il fattore principale. Conta, piuttosto, come e perché i dispositivi vengono utilizzati. Una differenza non da poco, che sposta il terreno di gioco da una contabilità a ore a un’indagine sulla qualità delle relazioni, delle emozioni, delle fragilità.

Non è solo una questione di tempo: bambini, schermi e salute mentale, la vera sfida è come li usano

Lo studio, condotto su un campione di oltre 5.200 ragazzi tra i 9 e i 12 anni, traccia un quadro tutt’altro che rassicurante: più che il numero di minuti passati davanti allo schermo, a influire sulla salute mentale sono le abitudini digitali. L’uso passivo, solitario, ansiogeno, alla ricerca di approvazione o evasione, si associa con maggiore frequenza a sintomi di depressione, ansia, ritiro sociale. L’interazione attiva, consapevole, creativa – spesso mediata da un adulto – sembra invece non solo meno dannosa, ma in alcuni casi persino protettiva. È un terreno scivoloso: richiede che adulti e ragazzi condividano lo spazio digitale come uno spazio relazionale, non solo di controllo o di fuga.

Scrollare non è come creare, ma i segnali sono invisibili

La differenza tra chi scrolla per ore su TikTok e chi usa lo smartphone per montare un video, disegnare o dialogare non si misura con il cronometro. Ma è lì che si gioca una partita cruciale per l’equilibrio psichico e la maturazione emotiva. Il problema, suggeriscono i ricercatori, è che i segnali di allarme restano sotto traccia fino a quando è troppo tardi: irritabilità, perdita di concentrazione, disturbi del sonno, chiusura. Tutti sintomi comuni e normalizzati, ma che in contesti sbagliati possono sfociare in dinamiche più complesse. Lo studio chiede di prestare attenzione non alla quantità, ma alla qualità. Un passaggio culturale che chiede molto, anche agli adulti.

La distanza generazionale e il vuoto educativo

Il 63% dei genitori dichiara di non conoscere davvero le app che i figli utilizzano ogni giorno. Solo una minoranza ha una routine di dialogo su ciò che viene visto, ascoltato, vissuto online. Questo scarto – culturale, tecnologico, generazionale – diventa un vuoto educativo, che spesso viene riempito dagli algoritmi. Ma gli algoritmi non hanno l’empatia di un genitore né la capacità di leggere il disagio. Lo studio parla chiaro: serve una nuova grammatica relazionale tra adulti e figli. Una grammatica che includa anche il digitale, non come eccezione da normare ma come parte viva della quotidianità.

Non solo responsabilità familiari: la politica osserva, ma non agisce

C’è poi la dimensione pubblica. Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità rilancia l’allarme sui disturbi mentali tra i giovanissimi, le risposte istituzionali si muovono con lentezza. Le piattaforme digitali continuano a proporre contenuti virali ai minori senza reali limiti, mentre le scuole faticano a integrare programmi di alfabetizzazione emotiva e digitale. Le politiche si limitano – quando va bene – a suggerimenti generici, senza incidere su ciò che accade ogni giorno nei telefoni dei bambini. Eppure è lì che si forma la nuova vulnerabilità. Ed è lì che dovrebbe iniziare la prossima battaglia educativa.
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