L'azienda Italia riparte...ma ancora senza riuscire accelerare

- di: Roberto Pertile
 

Nel corso del 2017 l’economia italiana ha registrato innegabili miglioramenti dando segnali convincenti di “ripresa”. Tuttavia, l’obiettivo è ancora lontano se pensiamo ad un allineamento della nostra economia con quella dei paesi europei più avanzati.
Il fatturato dei prodotti italiani, ad esempio, è stato inferiore non solo a quello della Germania e della Francia, ma anche del Portogallo e della Grecia. Il tasso di occupazione italiano è tra i più bassi. Il numero delle imprese esportatrici rimane sostanzialmente il medesimo degli ultimi anni senza sostanziali aumenti. In realtà, l’economia italiana, anche in questa ripresa, deve molto alla dinamica positiva dell’Europa ma c’è ancora molta strada da fare nel mercato domestico. E anche le proposte elettorali di politica economica che si sentono in queste settimane, da parte dei vari partiti, non sembrerebbero centrare i problemi strutturali e di fondo. A mio parere, uno dei nodi fondamentali da sciogliere per avere uno sviluppo auto propulsivo è quello delle relazioni industriali, che è attualmente un sistema vischioso e inconcludente con effetti negativi sul funzionamento delle infrastrutture, sul costo dell’energia (nettamente superiore a quello dei nostri maggiori partners europei), sull’amministrazione pubblica e sugli enti locali. La legislazione del lavoro è caotica ed anche di difficile “traduzione” in italiano.
Va detto, con franchezza, che tutto questo è solo “apparentemente” casuale; è addebitabile piuttosto agli accordi corporativi contratti negli scorsi decenni tra la parte conservatrice dell’imprenditoria privata e pubblica del Paese ed il movimento sindacale, in tutte le sue componenti. Non solo: sul piano partitico, tante volte abbiamo visto “mettersi d’accordo” la sinistra con le forze di destra.
Una specie di “patto scellerato” tra le parti sociali si è perpetuata in questi lunghi decenni senza che nessuna componente economica e/o sociale, e tanto meno partitica, lo mettesse in discussione.
Eppure, a mio avviso, è una responsabilità del “Sistema Paese”, – in primo luogo del governo, degli enti locali, degli imprenditori e dei sindacati dei lavoratori – fare sì che le componenti strutturali funzionino avendo come obiettivo, in particolare, una crescita costante e progressiva della produttività.

E allora cosa non ha funzionato?
La verità è che, alla base del “patto”, c’è stato un sindacato abbastanza restio a favorire gli investimenti innovativi, trovando l’accordo di imprenditori, numerosi, che hanno preferito ricercare i profitti mediante una politica speculativa d’investimenti finanziari a breve termine.
In particolare, il patto si è rafforzato nel disincentivare il più possibile gli investimenti stranieri. Nessuna delle due parti in causa ha pensato di favorire imprese con management che proponevano un lavoro più produttivo e più retribuito. Inoltre, nel bilancio negativo delineato, ha un peso rilevante la nostra legislazione del lavoro, che è stata ed è funzionale alla logica corporativa alla base del nostro sistema di relazioni industriali, che non ha mai accettato la concorrenza delle imprese “europee”. Tacitamente, si è sempre concordato nel tenere “fuori mercato” temibili concorrenti, specificatamente se “multinazionali”.
Alla lunga, questa emarginazione del sistema delle imprese italiane dal contesto internazionale si è rivelata negativa in quanto autoesclude la partecipazione delle imprese italiane dal processo di globalizzazione, e danneggia principalmente i nostri lavoratori, che rimangono, con tutta la loro fragilità, ai margini del mercato del lavoro.
Invece, ci sembrerebbe di gran lunga preferibile conseguire un obiettivo di segno opposto, che va nella direzione di un mercato aperto.
Un mercato aperto dove il meglio dell’imprenditoria possa operare senza corporazioni, con l’afflusso di capitali per investimenti competitivi, che consentono di elevare la qualità del sistema, ed in particolare la produttività.
Il patto corporativo andrebbe superato, a cominciare dalle Aziende Comunali, soprattutto nel campo dei trasporti pubblici, dove il Comune è, contemporaneamente il proprietario dell’azienda che eroga il servizio, nonché il cliente che paga per lo stesso.
Questo doppio ruolo manifesta ancor più la sua contraddittorietà nel caso di distribuzione di dividendi (succede spesso nel campo dell’energia).
Infatti, in questo caso, l’azienda ha l’interesse a reinvestire l’utile d’esercizio in investimenti strategici per il suo sviluppo; mentre il Comune proprietario vuole i dividendi per dare copertura finanziaria alle sue spese correnti (in primo luogo le spese del personale).
Soprattutto nel campo delle aziende “municipalizzate”, il mercato non viene preso in considerazione. Quello che conta è l’accordo tra i partiti della maggioranza ed il sindacato. in un gioco corporativo. Del cliente e dei suoi bisogni, soprattutto per quanto riguarda i ceti minori, non importa granché.
E’ stato così più facile per il sindacato ed i partiti trovare gli equilibri più utili ai loro interessi corporativi non considerando i danni arrecati alle aziende ed i relativi costi “incredibilmente alti”.

E’ stato questo accordo a legittimare il consenso politico-elettorale negli ultimi anni che hanno visto per decenni, le enormi perdite delle aziende, regolarmente ripianate dallo Stato.

Un’ipotesi di partenza per la soluzione di alcuni dei problemi posti, ad esempio trasporto pubblico ed energia pubblica, potrebbe essere di lasciare le cosiddette “reti” alle amministrazioni pubbliche, cedendo il resto ai privati. Gli enti locali potrebbero fare i contratti di concessione del servizio, prevedendo il controllo da parte del “cliente” finale (rendicontazione sociale ai cittadini).

Un’altra criticità, che non si può non prendere in considerazione, è il caso “Alitalia”: società, che già dal lontano 2008 è in stato fallimentare. Sotto il governo Prodi fu operata una trattativa con Air France/Klm, dopo una selezione delle maggiori imprese del settore. Sul piano industriale presentato da Air France/Klm fu aperta una trattativa con i sindacati dei lavoratori di Alitalia.Tutti i sindacati proposero condizioni diverse, praticamente inaccettabili. Il piano fu respinto.
La verità di quel fallimento è che nessuno sembrava veramente intenzionato a concentrarsi sul bene dell’azienda e sulle relative prospettive occupazionali. Il governo Prodi prima, e Berlusconi poi, si inventarono l’”italianità” di Alitalia. Un “patto scellerato”, anche questa volta. Così, gli effetti del fallimento della trattativa furono: la creazione di una “bad company”, scaricando sul bilancio dello Stato più di un miliardo e mezzo di debiti; la cassa integrazione per sette anni per oltre mille persone; il monopolio Alitalia sulla tratta Milano -Roma (la più redditizia) con prezzi praticati superiori a quelli di mercato. Last but not least, vediamo il caso ILVA, attualità di queste settimane. Già nei primi anni settanta era noto l’inquinamento ambientale con gli effetti negativi sulla salute della popolazione di Taranto e dintorni; si era già allora a conoscenza delle difficoltà gestionali (tanto è vero che l’IRI chiese una consulenza speciale e molto costosa a tecnici giapponesi ritenuti, allora, i migliori al mondo). L’IRI ed i governi di allora si nascosero dietro la bandiera dell’importanza strategica della siderurgia di Stato e dell’insediamento di Taranto per fare accordi con le parti sociali che non diedero soluzioni efficaci nel tempo.
Gli eventi della siderurgia IRI sono stati un caso eccezionale? Direi proprio di no. Veti e controveti sindacali; localismo bellicoso e velleitario; ogni decisione è provvisoria, mai definitiva.
La crisi dell’ILVA viene da molto lontano, sicuramente dagli anni settanta, se non già prima: ci sono state evidenti omissioni nella ristrutturazione dell’impiantistica e quindi nel risanamento ambientale.
Con l’assenso dei sindacati e degli enti locali è stato avallato un management IRI inadeguato, ma idoneo a siglare patti “corporativi” con le parti sociali. Sulla falsariga del pubblico ha, poi, operato l’imprenditoria privata, anche qui non considerando né la logica di mercato né l’interesse pubblico.
Ancora, oggi, un altro patto frena la soluzione del caso Ilva. La Regione Puglia ed il Comune di Taranto bloccano il piano di risanamento che il mercato propone, secondo nuove modalità e nuovi termini della produzione e secondo nuove logiche di risanamento ambientale.
Una logica chiaramente corporativa tra enti locali blocca la ristrutturazione di un importante pezzo dell’economica meridionale e riduce il ruolo dell’economia italiana nel contesto del mercato mondiale della siderurgia di alto forno.
Di recente, dopo aver dato prova al mondo industriale di avere a che fare con Istituzioni litigiose e poco affidabili la situazione di stallo in Ilva sembrerebbe sbloccarsi.

Ha senso, allora, investire in Italia?
Al governo del paese spetta il compito di promuovere la crescita e lo sviluppo delle imprese. Lo stesso compito spetta anche agli Enti Locali, al Sindacato, al sistema Confindustriale.
Il problema cruciale è attuare un piano di crescita che parta dall’industria del territorio, che, piaccia o meno ai sindacati, abbia al centro la crescita costante della produttività, in sintonia con la competitività internazionale, con chiare ricadute positive sui lavoratori.
Per essere in linea con l’Europa migliore sono necessarie intense politiche di investimenti industriali immateriali. Per fare ciò occorrono, ovviamente, significativi ed adeguati mezzi finanziari che si trovano sul mercato internazionale dei capitali. In altri termini, bisogna aprirsi al meglio dell’imprenditoria mondiale; cioè, bisogna sapere attirare l’interesse degli operatori internazionali. Si può, così, avere il vantaggio della presenza delle grandi imprese con tutte le ricadute positive che può avere sul nostro sistema, in particolare sulla qualità professionale del capitale umano. In questo quadro l’Italia può essere la cabina di regia per attuare politiche che portino in Italia capitali e “know how”; per avere la disponibilità delle parti sociali ad incentivare buoni piani industriali, elaborati da bravi imprenditori.

Per dare avvio concreto alla chiusura dell’era dei patti corporativi scellerati, un passaggio decisivo è dare molto spazio alla contrattazione aziendale, per sostituire, in gran parte, il contratto collettivo nazionale. Tutto ciò per aprirsi a modelli organizzativi innovativi che sappiano coniugare il nuovo ed il made in Italy.

E’ ormai finita da molto tempo l’epoca dei modelli “generalisti” di gestione dell’impresa, modelli funzionali alla contrattazione collettiva centralizzata.

Ci troviamo nell’epoca della “lean production”, cioè del pensare snello.

Gli standard contenuti nei c.c.n.l. possono, invece, limitare la competitività dell’impresa italiana, perché nessuno degli operatori aderenti può acquisire un vantaggio concorrenziale, sperimentando una struttura dei salari e degli stipendi innovativa rispetto agli standard e alle modalità attuative contenute nel c.c.n.l. che sono vincolanti per tutti.

L’innovazione “vera”, quella che spiazza il concorrente, non avviene a livello di un intero settore merceologico (c.c.n.l.), bensì a livello di singola azienda, che abbia una sua originale ricerca e sviluppo oppure che sappia incorporare, in maniera innovativa, il progresso tecnologico presente sul mercato.
In entrambi i casi è un’operazione individuale.
I modelli di sviluppo rigidi, che attirano ancora oggi le simpatie dei sindacati e degli operatori corporativi, non consentono di ottenere l’inversione di tendenza del sistema Italia, che deve essere più competitivo grazie a più produttività, raggiungendo i livelli dei migliori competitors europei e mondiali.
Dagli anni fine sessanta ed inizio settanta ad oggi, come già detto, vi è stata, invece, a livello di relazioni industriali, la predominanza di modelli di sviluppo rigidi, nati con il blocco, ideologico e operativo, della politica dei redditi, e, per certi aspetti, sono figli di follia collettiva. A questo proposito, si ricordi il modello sindacale degli anni sessanta in cui si teorizzava che la variabile “costo del lavoro” era indipendente dalle altre. Ciò significava poter variare il costo del lavoro indipendentemente dalla crescita della produttività.

Attualmente, è impensabile una rigidità diffusa dei modelli, e la loro estraneità alle dinamiche della produttività.

In Italia, il modello Toyota, ed i suoi sviluppi in “lean production”,ha ancora molta strada da fare: grande flessibilità, molta formazione specifica, gruppi di lavoro competitivi, turni di lavoro flessibili che consentono di far funzionare gli impianti 24 ore su 24 per sei giorni alla settimana (alta produttività).

Gli imprenditori italiani sono “ignoranti” delle nuove tecnologie, della nuova cultura delle relazioni industriali? Siano i sindacati dei lavoratori ad elaborare e proporre cultura e piani industriali innovativi ed affidabili con alla base un’etica aziendale ferrea.
Il cambiamento dipende senz’altro dall’impegno e dalla preparazione dei singoli (imprenditori, managers, tecnici, operai ) ma anche, e soprattutto, dall’organizzazione del lavoro, che è compito principale dell’imprenditore, che non può non essere aperto ai nuovi modelli di business.
Un punto va evidenziato: la produttività crescente, e i modelli che asetticamente la pongono al centro della loro metodica, possono generare un aumento delle disuguaglianze sociali.
In passato, i modelli fordisti, che sono stati alla base dei c.c.n.l., prevedevano che la parte più produttiva si facesse carico di quella meno produttiva, rinunciando ad una parte di salario a favore dei più deboli, in base ad un concetto di solidarietà di classe.

La nuova fase dello sviluppo industriale, dunque, richiede un nuovo patto sociale che esprima strumenti di tutela dei più deboli, che non possono essere più quelli obsoleti del vecchio c.c.n.l..
Le linee della nuova solidarietà nei confronti degli operanti nei settori fragili dell’economia possono essere: l’istruzione e la formazione professionale permanente; la redistribuzione dei redditi grazie ad una riforma del fisco; la tassazione dei grandi patrimoni secondo una politica di solidarietà sociale; i tagli incisivi allo spreco e alle rendite parassitarie nella Pubblica Amministrazione.

Progettare il futuro di questo paese chiede un cambiamento di marcia a tutti noi. Oggi, gli italiani vivono il presente in un sostanziale pessimismo. Non pensano al cambiamento, che, se c’è, viene sopportato fatalisticamente.

Dovremmo tutti imparare a vivere i problemi quotidiani come sfide e non come ostacoli perché il tempo offre sempre nuove opportunità per un futuro migliore.

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