Davide contro Golia - Una filiera di eccellenze, ma troppo piccola per sfidare i giganti

- di: Gianluca Di Loreto, Partner Bain & Company - Industrial and Automotive Sectors
 

La filiera automotive italiana (così come quella estera) è stata soggetta a disruption molto rilevanti negli ultimi tre anni, prima fra tutte quella derivante dalla mancanza di semiconduttori. Le sfide che le aziende dell’indotto automotive devono affrontare sono ormai di portata globale, ed è sbagliato pensare che sia solo la normativa (che ha ovviamente un suo peso) a ridisegnare i confini di una delle industrie più capital intensive che esistano. L’aumento del costo delle materie prime, l’inflazione a doppia cifra, il progressivo spostamento della produzione da Occidente a Oriente, il peso crescente dei Costruttori cinesi nel mercato europeo, così come nei nuovi brevetti registrati; ma anche la crisi Russia-Ucraina, le difficoltà logistiche e l’aumento vertiginoso del costo dei noli marittimi. Sono solo alcuni degli esempi di quanto sta accadendo, di quali siano le sfide della filiera. Ma la questione non è se ce ne saranno ancora di sfide simili: la risposta è semplice, la frequenza di queste disruption è in continuo aumento.

La vera domanda è: siamo davvero pronti?

Le aziende della nostra filiera sono note per l’eccellenza qualitativa dei propri prodotti. Sono leader nella componentistica di fascia premium, elementi fondamentali per garantire la continuità delle linee produttive europee. Il segmento lusso è l’emblema del Made in Italy. Ma tutto questo vale per il design e per la meccanica, per le prestazioni estreme. Non certo per il software o per i componenti elettrici ed elettronici. La vera sfida è costruire una nuova leadership italiana per le tecnologie del futuro, superando il vento contrario del costo del lavoro, della maggiore burocrazia, del costo della normativa. Fattori che non ci avvantaggiano rispetto a Paesi dell’Est Europa o di altre geografie, mediterranee o asiatiche. Per valutare la portata di questa sfida occorre fare un passo indietro e ripartire dai fatti, che per loro natura non sono democratici; i fatti non si basano sul consenso.

L’elemento principale dal quale ripartire è la redditività media dei componentisti automotive. Il COVID ha segnato un punto di rottura storico, perché dal 2021 per la prima volta la profittabilità dei Costruttori ha superato quella dei loro fornitori (Figura 1), attestandosi intorno all’8% (EBIT) contro un 5-6% della filiera dei componentisti. La profittabilità della filiera non è mai stata troppo elevata e si trova oggi a fronteggiare e finanziare investimenti come mai prima d’ora. È sempre stata connotata da investimenti incrementali (un nuovo impianto, un nuovo modello, una nuova geografia,…). Ora è invece tempo di investimenti radicali.


 Figura 1: Redditività di OEM e Componentisti

Gli investimenti radicali servono per un motivo molto semplice: i Costruttori (OEM) occidentali dovranno fronteggiare una nuova pressione sui margini, a causa dell’aumento di disponibilità del prodotto (per via dell’attenuazione del chip shortage) e della crescente concorrenza asiatica; le riduzioni di prezzo dei primi mesi del 2023 sono una prova certa di questa tendenza, così come un progressivo ritorno del fenomeno delle “Km 0” (il lupo perde il pelo….). Questa pressione non potrà non ribaltarsi sui componentisti della filiera, che dovranno farsi trovare pronti. Pronti…e con le spalle abbastanza forti da reggere il peso del futuro.

E qui arriva il problema principale per la filiera italiana. Le sfide globali sono le stesse per tutti, ma la filiera italiana fronteggia un problema in più: il proprio nanismo. Un “nanismo delle eccellenze” che pone un’ombra minacciosa sulla capacità delle aziende nostrane di resistere all’ondata in arrivo. Basta un dato per dipingere con efficacia il rischio della dimensione: tra le prime 100 aziende globali di componenti automotive solo due aziende hanno la sede operativa in Italia e sono gestite da management italiano (Figura 2).

Le operazioni di M&A sono aumentate nel 2022, sia nel mondo sia in Italia, ma non bastano; la maggior parte delle operazioni di fusione in Italia ha riguardato negli ultimi anni proprio i componentisti (intorno al 50-60% dei deal complessivi) ma la filiera deve consolidarsi ancora molto per essere in grado di fronteggiare la concorrenza. La dimensione media delle Top 100 mondiali è di alcune decine di miliardi di fatturato, mentre le aziende italiane dell’indotto raggiungono quando va bene il mezzo miliardo. Occorre quindi favorire la creazione di pochi, grandi “Campioni nazionali” che abbiano la capacità di investire nelle tecnologie e nelle competenze del futuro, giocando allo stesso livello dei giganti esteri (pur con le specificità delle produzioni tipicamente Made in Italy).

Ormai si parla molto di ESG a proposito delle sfide dell’automotive. Spesso se ne parla in modo improprio, indicando l’automobile come la fonte principale di emissioni inquinanti e quindi come “il nemico da [ab]battere”. Questo approccio oltre che ideologico è anche tecnicamente errato, in quanto i dati confermano come le autovetture pesino solo l’8% delle emissioni globali di CO2, e nello specifico le vetture europee meno dell’1%. Ma questa constatazione non esime il settore dall’intraprendere il proprio cammino verso la decarbonizzazione. Numerosi stakeholder spingono in questa direzione (azionisti, dipendenti, investitori,…) ma la ragione di questo risiede, di nuovo, nei numeri. Oggi un’auto inquina pochissimo rispetto anche solo a 15 anni fa, ma il numero complessivo di auto è in costante aumento a livello globale e questo comporta, se non un aumento, una non-riduzione delle emissioni del settore. È quindi doveroso fare quanto possibile per ridurre l’impronta carbonica; la filiera italiana può e deve dire la propria anche in questo senso, grazie alla creatività e imprenditorialità ben riconosciute alle nostre aziende.

E qui un altro dato viene in soccorso per completare il quadro. Quando sono misurate e riportate correttamente, le emissioni di “Scopo 3 Upstream”, ossia le emissioni dei fornitori a monte, sono la principale fonte di emissione per i Costruttori di auto. Questo significa che una volta che le Case avranno elettrificato i propri modelli (Scopo 3 Downstream) e fatto ricorso ad energie rinnovabili (ove possibile) per le proprie fabbriche (Scopo 1 e 2), per raggiungere i propri obiettivi di decarbonizzazione non potranno che rivolgersi alla filiera a monte. Da qui la necessità per i componentisti di farsi trovare preparati (Figura 3). Una nuova sfida, certo, ma in questo anche una opportunità. Una opportunità perché gli equilibri consolidati potrebbero saltare, ovvero una Casa Auto potrebbe trovarsi a cambiare i fornitori storici magari perché questi non saranno in grado di contribuire a sufficienza al loro percorso di decarbonizzazione. Si possono quindi riaprire i giochi competitivi, e come sempre questo processo agevolerà chi avrà fatto i compiti a casa prima degli altri, presentandosi con le carte in regola alla prova del futuro.

Questo può essere un terreno di caccia per la filiera italiana, che raramente compete sul puro costo e che piuttosto è nota per forniture di elevata qualità e livello di servizio distintivi. La possibilità di produrre componenti con basso impatto emissivo costituirà un pedigree molto importante sul quale costruire una nuova cifra distintiva, sfruttando al meglio i pilastri del Made in Italy per alleggerire l’impatto negativo dei vincoli suddetti (burocrazia, costi più elevati,…). L’obiettivo ultimo è far sì che, come oggi una percentuale importante dell’industria auto si rivolge ai componentisti italiani, anche tra 10-15 anni i più grossi player mondiali facciano ricorso alle nostre competenze e alla nostra filiera per costruire i propri veicoli.

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