Una scossa di magnitudo 6,3 ha colpito l’area di Mazar-i-Sharif, seminando panico e distruzione. Almeno venti le vittime confermate, molte rimaste intrappolate sotto case di fango e mattoni mai rinforzate dopo anni di conflitti e inverni rigidi. Tra i simboli feriti, la Moschea Blu, danneggiata nella cupola e nei minareti: l’immagine dei mosaici crepati ha fatto il giro delle radio e dei telefoni locali, diventando un frammento di dolore collettivo.
Afghanistan, il sisma colpisce un Paese già allo stremo: paura, povertà e macerie
Nel nord del Paese, dove le strade sono strette e le ambulanze faticano a passare, gli sfollati cercano riparo all’aperto, stendono coperte, bruciano legna umida. “Non abbiamo più casa, dormiamo vicino ai campi”, racconta Abdul, insegnante, con il volto coperto di polvere. La notte porta freddo e timori di nuove scosse, mentre le milizie talebane pattugliano le vie — più per mostrare controllo che per portare aiuti strutturati.
Economia fragile, emergenza infinita
L’Afghanistan non aveva ancora smaltito lo shock dell’ultimo inverno, segnato da carestia e mercati deserti. Il terremoto arriva come una colata di cemento sull’economia più vulnerabile dell’Asia centrale. La perdita di abitazioni e piccoli negozi significa meno lavoro, meno circolazione di beni, meno fiducia.
Il valore delle rimesse — oggi linfa vitale per milioni di famiglie — rischia una contrazione, perché la diaspora afghana vive a sua volta tra stipendi bassi e documenti precari. L’assenza di un sistema bancario pienamente operativo spinge chi può a ritirare contanti, alimentando la corsa alla liquidità. Le organizzazioni locali parlano già di un incremento dei prezzi del pane e dell’olio, mentre il carburante diventa raro nelle province settentrionali.
“Il sisma non distrugge solo case, distrugge i margini di sopravvivenza”, avverte un economista di Kabul che chiede l’anonimato. “Quando ci si muove tra povertà estrema e repressione politica, ogni shock diventa irreversibile”.
Aiuti limitati, ostacoli infiniti
Le ONG internazionali fanno sapere che i loro team stanno cercando di raggiungere i villaggi più colpiti, ma la burocrazia dei talebani rallenta l’entrata di materiali, e la paura di sequestri o controlli arbitrari limita il flusso di volontari. Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per “la difficoltà di valutare i bisogni reali sul campo”.
Nelle zone rurali, la popolazione si affida a reti familiari e a moschee locali. Le donne, escluse dalla maggior parte dei lavori pubblici, sono tra le più esposte: molte non possono nemmeno accedere direttamente agli aiuti, costrette a dipendere da parenti maschi. Le scuole femminili, già chiuse da mesi, rischiano ora di diventare rifugi improvvisati dove si distribuiscono scorte minime di farina e acqua.
Un Paese sospeso tra fede e fratture sociali
A Mazar-i-Sharif, la vita ruota attorno alla Moschea Blu, luogo di preghiera e commercio. Vederla ferita significa sentire vacillare l’identità stessa della città. I fedeli pregano tra impalcature improvvisate, mentre gli imam invitano alla “pazienza nella prova”.
Ma sotto la superficie spirituale scorre una frustrazione crescente. I giovani non vedono futuro, le famiglie mendicano lavoro ai check-point dei talebani, gli agricoltori temono che la prossima stagione porterà solo raccolti magri e debiti. Gli esperti parlano di un Paese senza margine, in cui ogni evento naturale si trasforma in crisi sociale e politica.
Tra le macerie, resta un filo sottilissimo di solidarietà: vicini che condividono pane, donne che cucinano per i feriti, bambini che aiutano a riempire sacchi di terra. È una resistenza silenziosa, fatta di gesti piccoli, che prova a tenere insieme una società fratturata mentre la terra continua, minacciosa, a tremare sotto i piedi.