Gli irriducibili della mascherina

- di: Barbara Leone
 
Che struggimento, che dispiacere, che nostalgia. Di quando per strada incontravi la sciura Marisa che ti raccontava del dolore al ginocchio, dello stracchino avariato rifilatole dal salumiere e di sua cugina Esmeralda novella star del corso di tango. E tu, con occhio sornione, la guardavi facendo di sì con la testa ma sbadigliando profusamente sotto la mascherina. Che struggimento, che dispiacere, che nostalgia. Di quando al primo appuntamento ti si incastrava una perfida fogliolina di lattuga tra i denti e tu, con languida nonchalance, infilavi la mascherina che tutto celava e volavi in bagno a levartela con la scusa di rifarti il trucco. E a proposito di trucco, vuoi mettere la libertà di non truccarti ogni santa mattina che tanto con la mascherina non si vede? Per non parlare della scampata tortura di dover andare ogni due settimane dall’estetista a togliere i baffetti da sopra il labbro. Che struggimento, che dispiacere, che nostalgia. Di quando mandavi a quel paese il vicino di casa senza che lui capisse che stra cavolo stavi dicendo. Mascherina, mascherina mia perché adesso ti si portano via?

Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Abbiamo passato due anni sani sani con la mascherina spiaccicata sulla faccia. Con gli occhiali perennemente appannati, il segno degli elastici sul collo, le goccioline di sudore che si mescolavano al moccio del naso, le orecchie alla Dumbo e l’anidride carbonica respirata a pieni polmoni. Una goduria pazzesca, davvero! E ora che finalmente hanno levato l’obbligo di portarle all’aperto la gente che fa? Ci si avvinghia ghermendole come fosse l’ultimo baluardo dell’eroica integrità, se le tiene strette ai lobi sussurrando parole d’amore, le difende, le serra, le stringe. Non le molla, e imperterrita continua a tenerle sul naso mentre cammina nei parchi, per strada, nelle piazze. E non parlo di luoghi affollati, ma di posti ove fisiologicamente si cammina a distanza. Vero è che togliere l’obbligo delle mascherine all’aperto proprio in pieno carnevale pare un pelino a presa per i fondelli. Ma tant’è, prendi e porta a casa. Prima che cambino per l’ennesima volta idea. 

E levat ‘a mascherina! ‘A mascherina gnornò gnornò!

E invece no. Manco per niente. Basta girare per le strade di qualsivoglia città per capire che… “Houston, abbiamo un problema”. E il problema si chiama psicosi, esasperato bisogno di protezione, panico. O semplicemente abitudine. Poi vabbè, ci sono quelli che ce l’hanno pure quando guidano in macchina da soli. E lì, più che l’ambulanza per il Covid, ci vorrebbe la neuro perché trattasi di casi patologici. Ma tutti gli altri? Quelli che cocciutamente se ne stanno con le mascherine attaccate alla faccia in mezzo al parco anche se, vivaddio, non è più così necessario… Ma che problemi hanno? Che guaio hanno passato da piccoli? All’origine ci deve essere per forza un trauma infantile, una amnesia, una caduta da cavallo con conseguente commozione cerebrale. Perché sennò davvero non si spiega. 

Così come non si spiega, ed ha dell’assurdo, la grottesca esegesi della mascherina scritta da rinomate firme di altrettanti rinomati giornali. La mascherina come la coperta di Linus, la mascherina ci mancherà, la mascherina che ci ha unito e reso partecipi di una comunità e panzane del simili. Ma veramente fanno? Perché sinceramente quest’elogio supremo delle mascherine da parte di una certa intellighenzia con la puzza sotto al naso (coperto dalla mascherina, ça va sans dire) ha l’acre sapore dell’isteria collettiva che sempre più, nel corso della pandemia, ha preso il sopravvento. Da entrambi i lati: di chi scelleratamente minimizza ridicolizzando la paura di morire e di chi, altrettanto scelleratamente, enfatizza all’inverosimile ogni microscopica quisquilia esasperando l’umana, umanissima, paura di morire. 
Il Magazine
Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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