Intervista a Vincenzo Manfredi, Public Affairs and Advocacy Director. Il ruolo dell’esperto di relazioni pubbliche, i cambiamenti portati in questo campo dalla rivoluzione digitale, la validità della Holding come strumento di pianificazione del passaggio generazionale.
Vincenzo Manfredi: "L'urgenza dell'ascolto fondamentale per la creazione di valore condiviso"
Lei ha affermato che “l’esperto di relazioni pubbliche (e di public affairs e lobby, di management e di change management) è prima di tutto un esperto di “ascolto organizzativo”. Può entrare nel dettaglio di questa affermazione?
Una delle differenze fondamentali del sistema delle relazioni pubbliche, nel passaggio fra il XX e il XXI secolo, è che siamo passati dalla comunicazione come persuasione alla comunicazione come dialogo. Da comunicare ‘a’ a comunicare ‘con’. Questo ha come conseguenza che non è più efficace operare e comunicare per allineare i pubblici di riferimento agli interessi dell’organizzazione ma diventa vitale, per raggiungere gli obiettivi, ottimizzare la qualità del processo organizzativo e decisionale attraverso l’ascolto delle aspettative degli stakeholder. Non più un compromesso strappato, più o meno esaustivo per gli interessi in campo, ma un reale processo di ascolto che porti alla definizione di un equilibrio delle posizioni e delle istanze. Il professionista di relazioni pubbliche, nella sua funzione di architetto di relazioni, è il principale attore e gestore dell’ascolto organizzativo. Ciò significa che tutte le organizzazioni – che sono organismi complessi – hanno la necessità di creare architetture e piattaforme di ascolto per acquisire o riconquistare la fiducia e coinvolgere nuovamente le persone le cui voci non vengono ascoltate o ignorate. L’urgenza dell’ascolto è fondamentale per la creazione di valore condiviso e per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, ma è anche essenziale per mantenere la legittimità dell’organizzazione, la sostenibilità aziendale, l’equità sociale ed anche una sana democrazia.
Purtroppo, continua a prevalere una comunicazione trasmissiva, in quanto le aziende sono molto impegnate a veicolare contenuti piuttosto che porsi in ascolto: anche se parliamo tanto di engagment, la comunicazione andrebbe considerata come una tecnica delle relazioni pubbliche. È solo in questo modo che la disciplina delle relazioni pubbliche può correttamente agire per rendere il cambiamento una issue da gestire, promuovere e orientare. L’ascolto organizzativo è ciò che rende le imprese e le organizzazioni resilienti e collaborative con l’ambiente esterno: anzi non si considera più l’ambiente dove si agisce come concorrente, ma come l’alveo naturale all’interno del quale trovare forme innovative di collaborazione e del fare sistema, che è l’unica risposta sapiente da dare di fronte al crescente bisogno di gestione e governo della complessità. L’ascolto organizzativo è il primo passo verso la definizione e la strutturazione del ‘purpose’ - lo scopo più alto – o, come lo traduco io, la vocazione profonda dell’organizzazione. Questo punto è dirimente per una corretta postura delle organizzazioni e per la loro continuità nel tempo.
La rivoluzione digitale ha cambiato molte delle carte in tavola in ogni assetto: economico, sociale, culturale e così via. Quali cambiamenti ha portato nel campo degli Affari istituzionali? C’è, in questo campo, un “prima” e un “dopo”?
Tutti noi siamo consapevoli delle conseguenze della disintermediazione posta in essere dal digitale e, per il momento, non abbiamo ancora completa contezza di quanto l’Intelligenza Artificiale (IA) sia capace di disintermerdiare ancora di più il patto sociale e lo sviluppo economico in tutte le sue declinazioni. Credo che sia necessario un uso più consapevole delle piattaforme digitali per ricercare forme concrete per una nuova intermediazione delle relazioni fra le organizzazioni, le istituzioni, i pubblici e gli stakeholder. Uno degli effetti del digitale è quello di aver aumentato la velocità dell’ingaggio e del coinvolgimento. Se pensiamo alla costruzione delle scelte di acquisto ci rendiamo conto che ‘slow down’ potrebbe, o dovrebbe essere, una nuovo modo di approcciare la realtà. Ma è difficile rallentare. È proprio questo eccesso di velocità che ha reso le piattaforme di monitoraggio delle attività di public affairs una questione strategica.
Le attività di public affairs hanno sempre più la necessità di essere inquadrate in un contesto di accountability che possa coniugare la prova dell’ingaggio con il raggiungimento del risultato. Tutti noi sappiamo che questa specifica attività di relazioni pubbliche è un’obbligazione di mezzo e non di risultato. Ma proprio per questo risulta quanto mai necessario che le attività di public affairs siano monitorate, analizzate e che la progettazione della strategia abbia la capacità di rendicontare l’azione e la valutazione degli effetti.
Gli anglosassoni parlano di outtakes e di outcomes. Gli outtakes come quel risultato che ci dà la misura di ciò che il pubblico ha capito della nostra azione di relazioni pubbliche e corporate communications; mentre gli outcomes sono quei cambiamenti quantificabili nei livelli di consapevolezza, conoscenza, atteggiamento, opinione e comportamento che si verificano come risultato di un programma o campagna di relazioni pubbliche. Cioè il contributo che la nostra azione ha dato al cambiamento di comportamenti e alla determinazione degli obiettivi di policy.
C’è una definizione di relazioni pubbliche che sintetizza molto bene il concetto. È quella del CIPR (Chartered Institute of Public Relations) del 2020: “Le relazioni pubbliche sono la disciplina che si prende cura della reputazione delle organizzazioni, con l’obiettivo di accrescere la conoscenza reciproca, il sostegno e per influenzare opinioni e comportamenti. Le relazioni pubbliche sono una funzione manageriale (deliberata e pianificata) per stabilire e mantenere un reciproco e proficuo ascolto e comprensione tra un’organizzazione e il suo pubblico”. Ecco quel prendersi cura costituisce il prima e il dopo del digitale nel public affairs. Il digitale ha accresciuto la cosiddetta ‘licenza di operare’ degli specialisti di public affairs. Questa innovazione spinge i manager del public affairs ad utilizzare la data science per il disegno del processo decisionale strategico. Se fino a qualche anno fa gli ambiti del public affairs erano modellati da intuizioni ed esperienze professionali, oggi diventa necessario usare l’analisi specifica dei dati per la gestione del policy making, cosa che comporta un cambiamento di paradigma nelle strutture di public affaris interne alle aziende, ma anche nelle società di lobby.
C’è poi da considerare “il concetto di corporate political responsibility è stato introdotto in letteratura da Johannes Bohnen. Questo concetto è una sostanziale evoluzione di corporate social responsibility perché pone l’accento sul vantaggio competitivo che il focus politico impone alle imprese, che altro non è che lo stato dell’arte della considerazione che la società nel suo complesso ha della politica e delle istituzioni. Una posizione, quella delle aziende, che, se compresa nell’alveo del posizionamento della sfera pubblica, ridona una particolare consapevolezza dell’agire di impresa. Cosa questa che ha come significato un nuovo modo di concepire il successo sostenibile. Le imprese devono concentrarsi maggiormente sulle opportunità che esistono nell’interfaccia tra politica ed economia ed estendere il loro concetto di investimento per includere una componente politica”.
Lei è Public Affairs and Advocacy Director di Assoholding, l’Associazione delle holding di partecipazione italiane. I tassi di mortalità delle imprese familiari alle prese con il passaggio generazionale sono molti alti: solo il 30% circa sopravvive con la seconda generazione, solo il 12% con la terza, e un esiguo 3% continua a operare oltre la quarta generazione. Quanto è valida la Holding come strumento di pianificazione del passaggio generazionale e perché? Serve, in questo campo, una riforma legislativa?
I dati che lei cita sono effettivamente sconfortanti. Tutti noi sappiamo che la struttura portante dell’economia italiana – formata in larga parte da PMI – ha bisogno di un cambio sostanziale di paradigma. Per non parlare delle cosiddette policrisi che stiamo vivendo. Per provare ad approcciare la questione in modo concreto credo che sia necessario porre l’accento prima di tutto sulla governance. I parametri ESG sono importanti per il futuro, ma senza una nuova governance difficilmente riusciremo ad imporre un cambiamento nei dati citati nella sua domanda. E l’aspetto della governance è anche un aspetto relativo alla fiducia e alla speranza. Le crisi dipendono dai conflitti, da tanti piccoli conflitti relazionali all’interno delle organizzazione e delle imprese, non solo familiari. Gli strumenti legislativi e regolamentari esistono, ma vanno usati con una corretta strategia e una profonda conoscenza dei trend e della gestione delle crisi. Se non poniamo la Governance al centro della riforma complessiva del sistema resteremo sempre a metà del guado.
Qui ritorna con prepotenza il concetto di governo strategico delle relazioni e di cura per le organizzazioni. Se non facciamo sistema, se non capiamo che anche la sparizione di una microimpresa è un danno economico e valoriale più grande di quando non ci dicano i dati, vuol dire che non abbiamo ancora inteso la portata del problema. Le holding possono essere il corretto strumento che armonizza gli interessi delle seconde e terze generazioni e che riesce a dare continuità aziendale lì dove ci possono essere mismatch comunicativi e di interessi diversi.
Per realizzare il purpose profondo dell’azienda, l’istituto della holding consente di abbassare il livello di conflittualità interna e di dare le giuste coordinate per la realizzazione di piani strategici capaci di realizzare ed accrescere il valore prodotto e condiviso. Sarebbe importante che il decisore pubblico consideri la holding uno strumento di accrescimento del valore dell’economia complessiva del Paese e per questo dare un nuovo impulso alla materia.
In Assoholding ci occupiamo di rappresentare le holding e tutta la catena del valore della governance rigenerativa presso i decisori pubblici. Per noi essere rigenerativi vuol dire essere attenti alla cura delle persone e delle organizzazioni perché siamo convinti che le Pmi siano il luogo dove più di ogni altro si realizzerà il cambio di paradigma dello stakeholder capitalism. Siamo attivi nel realizzare quella intersezione dei saperi necessaria per la gestione della complessità attraverso un’attenta e consapevole disseminazione culturale e la verticalizzazione degli strumenti tecnico legislativi. L’interesse crescente per i corsi di formazione che realizziamo in Assoholding ci fa capire che la richiesta di nuove competenze aggiornate il mercato richiede: e allo stesso tempo è molto alta la richiesta di consulenza, sia delle imprese associate, ma anche in tutte il vasto tessuto delle PMI italiane. Avere cura vuol dire operare affinché i passaggi generazionali siano produttivi di valore, e non come spesso accade, portatori di dissoluzione valoriale ed economica. In questo la responsabilità e l’accountability, essenza stessa dell’agire associativo, ci aiutano a realizzare per i nostri associati una visione ed una strategia di lungo periodo.