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Ultrà senza freni: il calcio italiano ostaggio della violenza

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ultrà senza freni: il calcio italiano ostaggio della violenza

Il derby tra Lazio e Roma si è aperto con scene che nulla hanno a che vedere con lo sport. Circa 500 tifosi, molti incappucciati e armati di bastoni e bombe carta, hanno tentato di forzare i blocchi delle forze dell’ordine nel tentativo di raggiungere il settore avversario. Ne è nata una guerriglia urbana a pochi passi dallo stadio Olimpico, con un bilancio pesante: tredici agenti feriti, danni agli arredi urbani, traffico in tilt. A fermare gli ultrà è stato l’intervento massiccio di polizia e carabinieri, che hanno utilizzato idranti per disperdere i facinorosi.

Ultrà senza freni: il calcio italiano ostaggio della violenza

La violenza negli stadi non è un problema nuovo, ma ogni episodio conferma la sua gravità strutturale. Non si tratta più di singole risse o tensioni sporadiche: il calcio italiano è ostaggio di una rete di gruppi organizzati che, sotto la bandiera della fede sportiva, muovono dinamiche sempre più simili a quelle della criminalità organizzata. Droghe, armi improprie, linguaggi d’odio, logiche di territorio: lo stadio è diventato un teatro di scontro sociale. Il caso dell’Olimpico è solo l’ultimo in ordine di tempo. Eppure, gli interventi sembrano sempre rincorrere l’emergenza.

Dalle curve alle strade: il tifo che degenera
Quello che accade nei pressi degli stadi è spesso il riflesso di dinamiche che partono molto prima del fischio d’inizio. Le chat criptate, le catene di comando interne ai gruppi, le alleanze tra tifoserie “gemellate” e le rivalità radicate in anni di scontri: tutto concorre a creare un clima da guerra fredda. Il calcio giocato diventa un pretesto. Il contatto fisico con i rivali è cercato, preparato, quasi invocato. La trasferta non è più un momento di condivisione, ma una spedizione punitiva. E i numeri parlano: da inizio stagione, oltre 150 agenti feriti e decine di Daspo.

Il Viminale rilancia il pugno duro
Dopo i fatti dell’Olimpico, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha ribadito la linea dura. “Non ci saranno tolleranze – ha dichiarato – e siamo pronti ad adottare ulteriori misure per garantire l’incolumità delle forze dell’ordine e dei cittadini”. Il recente decreto-legge sicurezza, già approvato, prevede l’inasprimento delle sanzioni per chi partecipa a scontri e danneggiamenti in occasione di manifestazioni sportive. Ma l’efficacia resta tutta da dimostrare, soprattutto in un contesto in cui i gruppi organizzati appaiono spesso più rapidi delle istituzioni nel coordinare azioni sul territorio.

Cultura ultras e fallimento educativo
Dietro ogni fumogeno acceso, dietro ogni insulto razzista, dietro ogni pugno sferrato, si nasconde anche un vuoto educativo. Molti giovani trovano nell’identità ultras un senso di appartenenza che altrove non riescono a costruire. Le curve si sostituiscono alle scuole, alle famiglie, alle comunità. La violenza diventa linguaggio abituale. Il tifo sano, quello che anima lo sport, viene messo all’angolo. E mentre le società si affrettano a dissociarsi, troppo spesso chiudono un occhio quando si tratta di mantenere rapporti con le frange più calde, utili a garantire coreografie, biglietti venduti e controllo del consenso.

Un calcio che deve scegliere da che parte stare

La responsabilità, però, non può essere solo dello Stato. Anche la giustizia sportiva, la Lega Serie A, le società e gli stessi tifosi devono fare una scelta di campo. Tollerare significa complicità. Eppure, in molti casi si continua a fingere che certi episodi siano inevitabili, che basti una multa o una giornata a porte chiuse per voltare pagina. Intanto, la violenza si rinnova a ogni turno di campionato. Finché lo stadio sarà luogo di sfogo per rabbia e frustrazioni, anziché uno spazio condiviso di gioco e passione, il calcio italiano resterà sotto scacco.

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