Donald Trump ha deciso di rafforzare una delle sue armi economiche preferite: i dazi doganali. Il messaggio arriva diretto attraverso Truth, il social network dove l’ex presidente – ora presidente in carica – concentra la sua comunicazione politica. “Gli Stati Uniti stanno incassando numeri record con i dazi”, scrive, e aggiunge che l’inflazione è in calo, sottolineando un presunto legame diretto tra la tassazione delle merci estere e la ripresa economica americana. In realtà, la frase originale include un errore (“il palloncino è in calo”), forse un refuso o un'autocorrezione maldestra, ma il messaggio resta chiaro: Trump vuole dimostrare che la sua politica protezionista ha successo.
Trump rilancia i dazi: “Numeri record e inflazione in calo”
A preoccupare le cancellerie internazionali non sono solo le tariffe, ma anche il nuovo piano di spesa per la difesa americana, che per la prima volta nella storia raggiunge quota 1.000 miliardi di dollari. La Cina reagisce con durezza. Il portavoce del ministro degli Esteri attacca frontalmente Washington, affermando che “l’uso indiscriminato della forza non renderà di nuovo grande l’America, ma infliggerà solo dolorosi disastri al popolo Usa e al resto del mondo”. La replica sottende un’irritazione crescente per quella che a Pechino appare una politica estera e commerciale aggressiva, volta a frenare la proiezione cinese nel mondo, in particolare nel settore tecnologico e nei rapporti con i paesi dell’Asia e dell’Africa.
Dazi come leva geopolitica e strategia interna
Secondo il Wall Street Journal, Trump intende usare i dazi non solo come misura di protezione dell’economia americana, ma anche come strumento per esercitare pressione sui partner commerciali degli Stati Uniti. L’obiettivo è spingere questi paesi a ridurre la loro esposizione verso la Cina, penalizzando indirettamente Pechino. È una strategia che si muove su un doppio binario: rafforzare la produzione interna, mentre si indebolisce la catena di fornitura globale cinese. Ma a Washington si discute anche dell’effetto interno: il protezionismo potrebbe offrire un vantaggio tattico in vista delle elezioni di medio termine, permettendo a Trump di mostrarsi come il difensore degli interessi nazionali, soprattutto nei confronti della working class americana.
Un messaggio rivolto anche all’Europa
L’inasprimento della politica commerciale non guarda solo a Oriente. Tra i paesi potenzialmente coinvolti nella nuova stretta trumpiana figurano anche gli alleati europei. Alcune indiscrezioni da ambienti diplomatici suggeriscono che potrebbero tornare in discussione i vecchi dossier su acciaio, alluminio, auto e prodotti agricoli. Trump ritiene che l’Europa benefici di un surplus commerciale “ingiustificabile”, e potrebbe tentare di negoziare nuovi accordi a condizioni più favorevoli agli Stati Uniti. In questo contesto, i dazi si configurano come leva negoziale più che come strumento permanente. Ma le possibili ritorsioni e il rischio di escalation commerciale sono già al centro delle preoccupazioni della Commissione europea.
Un’economia che non risponde più alle logiche globali
L’approccio dell’amministrazione Trump segna una frattura rispetto ai decenni precedenti. L’idea di fondo è che la globalizzazione abbia penalizzato l’industria americana e svantaggiato la sicurezza economica degli Stati Uniti. Questo paradigma, basato sul decoupling strategico – la separazione delle economie occidentali da quella cinese – è ormai centrale nell’agenda repubblicana. Il nuovo protezionismo si accompagna a una crescente attenzione per il reshoring, il rientro delle produzioni nel territorio nazionale, e per il rafforzamento delle catene logistiche interne. Il modello è quello di un capitalismo meno dipendente dagli scambi internazionali, più orientato alla resilienza nazionale, anche a costo di sacrificare efficienza e competitività di prezzo.