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Trump, Big Tech ed Europa divisa sulle regole digitali

- di: Marta Giannoni
 
Trump, Big Tech ed Europa divisa sulle regole digitali
Trump, Big Tech e l’Europa divisa sulle regole digitali

Dazi in cambio di regole più morbide, il caso X-Musk, il sogno trumpiano di un’Europa “trumpizzata” e una Ue che litiga su come difendere la propria sovranità digitale. 

Per la Casa Bianca di Donald Trump il nuovo fronte con l’Europa non è più quello dei tank sul confine russo, ma quello – meno spettacolare e infinitamente più redditizio – delle regole digitali. Nel documento aggiornato sulla sicurezza nazionale, Washington descrive un’Europa in “declino” e ossessionata dalle “migrazioni di massa”, puntando il dito sulle scelte regolatorie di Bruxelles su Big Tech e piattaforme online.

Sotto la vernice ideologica, la questione è brutalmente concreta: la Casa Bianca offre un alleggerimento dei dazi su acciaio e alluminio europei in cambio di una Ue più morbida su Digital Markets Act (DMA) e Digital Services Act (DSA), i due pilastri del nuovo diritto digitale europeo. Sullo sfondo, le elezioni europee del 2026, il progetto di euro digitale e la tentazione, per alcuni governi, di sacrificare un pezzo di sovranità pur di disinnescare una guerra commerciale.

La nuova dottrina Trump: Europa periferia, non più alleato

La National Security Strategy firmata da Trump tratteggia un’Europa non più partner ma quasi fardello strategico. Nel testo, anticipato da media americani ed europei, il Vecchio continente viene descritto come “civiltà in declino”, minacciata da flussi migratori e da élite “globaliste” che soffocherebbero l’Occidente “autentico”.

Non è solo retorica elettorale: la dottrina spinge apertamente i governi europei verso una linea più dura su immigrazione e sicurezza, e al tempo stesso considera una Ue compatta come un problema. Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto lo ha messo in chiaro: Trump ha “esplicitato che l’Ue non gli serve” e che europei e italiani dovranno caricarsi sulle spalle “sicurezza, difesa e deterrenza” in autonomia.

Dentro questa cornice si inserisce il dossier digitale. Washington non guarda più a Bruxelles come a un laboratorio di regole da imitare, ma come a un soggetto da piegare, anche al prezzo di una vera e propria guerra degli standard tecnologici.

Dazi in cambio di norme: il baratto di Lutnick su DMA e DSA

Il salto di qualità arriva a fine novembre, a Bruxelles. Il segretario al Commercio americano Howard Lutnick esce da un incontro con i ministri Ue e annuncia che Washington è pronta a ridurre i dazi su acciaio e alluminio introdotti negli anni scorsi solo se l’Europa accetterà di rendere più “bilanciate” le proprie regole sul digitale.

Dietro un aggettivo apparentemente innocuo c’è l’obiettivo vero: alleggerire l’applicazione del DMA e del DSA sui giganti americani di Internet. Le richieste Usa ricalcano le preoccupazioni di Silicon Valley, che da mesi protesta contro quello che considera un intervento europeo invasivo sulle piattaforme e sui loro dati.

Cosa colpiscono realmente DMA e DSA

Il Digital Markets Act prende di mira le piattaforme “gatekeeper”, i gruppi che controllano l’accesso a mercati chiave: sistemi operativi, app store, social network, motori di ricerca, messaggistica e advertising digitale. Fra questi, la lista ufficiale di Bruxelles include colossi come Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft e ByteDance.

Il DMA impone loro di non auto-favorire i propri servizi, aprire le interfacce tecniche ai concorrenti, consentire la portabilità dei dati e limitare la combinazione massiva di informazioni raccolte su servizi diversi.

Il Digital Services Act, invece, riscrive le responsabilità sulle informazioni che circolano online. Le piattaforme molto grandi devono valutare i rischi sistemici – disinformazione, odio, interferenze elettorali – e mettere a disposizione più trasparenza su algoritmi, pubblicità e accesso ai dati per ricercatori e autorità.

È proprio questa architettura che la squadra di Trump vuole rendere più “flessibile”: meno obblighi sugli algoritmi, scadenze più larghe per gli adeguamenti, interpretazioni meno severe sugli abusi di posizione dominante. In cambio, qualche miliardo di export in più per l’industria europea dei metalli.

Ribera in trincea: “Il rulebook europeo non è in vendita”

A fare muro è soprattutto Teresa Ribera, vicepresidente della Commissione europea e responsabile dell’Antitrust. La commissaria spagnola ha definito apertamente la proposta Usa un “ricatto”, chiarendo che il “digital rule-book europeo non è negoziabile” in un tavolo commerciale.

Per Ribera le nuove regole sul digitale sono prima di tutto una questione di sovranità: decidere chi controlla l’accesso ai dati dei cittadini europei e quali standard regolano la circolazione delle informazioni. Barattare queste leve strategichedi lungo periodo con uno sconto temporaneo sui dazi industriali, nel suo schema, sarebbe un errore storico.

Al suo fianco, la storica architetta del pacchetto digitale, Margrethe Vestager, ha ricordato che l’Ue “ha promesso ai cittadini un ecosistema digitale più equo e sicuro” e che tornare indietro ora, sotto pressione politica esterna, minerebbe la credibilità stessa dell’Unione.

Il caso X-Musk che incendia il confronto transatlantico

A rendere ancora più esplosivo il braccio di ferro è arrivato il caso X, l’ex Twitter di Elon Musk. La Commissione europea ha inflitto alla piattaforma una multa da 120 milioni di euro, la prima così pesante nell’ambito del DSA, per violazioni ripetute degli obblighi di trasparenza.

Nel mirino di Bruxelles ci sono il design ingannevole del sistema di verifiche, la scarsa tracciabilità della pubblicità e il rifiuto di fornire ai ricercatori un accesso significativo ai dati pubblici della piattaforma. Per l’esecutivo Ue non si tratta di cavilli tecnici, ma di strumenti essenziali per impedire che la discussione pubblica sia manipolata nell’ombra.

La reazione di Musk è stata, come sempre, sopra le righe: ha bollato la sanzione come “assurda” e ha rilanciato a colpi di post contro la burocrazia di Bruxelles, spingendosi fino a invocare, provocatoriamente, la dissoluzione dell’Unione europea.

La politica americana ha raccolto il messaggio. Trump ha definito la multa una decisione “ostile” verso le aziende Usa, mentre il vicepresidente JD Vance ha parlato di attacco alla “libertà di espressione” e di tentativo europeo di “imporre censura” oltre Atlantico.

A Washington il caso X è stato dipinto come un precedente pericoloso: se oggi tocca a una piattaforma “scomoda”, domani – è il sottinteso – potrebbe toccare a qualsiasi altro campione digitale a stelle e strisce.

Un’Europa divisa fra falchi regolatori e pragmatici del commercio

In questo clima, le divisioni interne all’Unione diventano la vera arma su cui punta la Casa Bianca. Semplificando, il fronte europeo si spezza su tre linee principali.

  • Germania: la grande industria, dall’auto alla meccanica, teme ritorsioni americane e spinge per una soluzione di compromesso che salvi il principio delle regole europee ma smussi gli angoli più taglienti per Big Tech. Berlino guarda con favore a una “implementazione flessibile” del pacchetto digitale.
  • Italia: Roma legge il dossier in chiave geopolitica. Crosetto e altri esponenti del governo sottolineano che la nuova postura Usa – “alleato sì, ma non più garante” – impone all’Europa di rafforzare, non indebolire, la propria autonomia strategica, anche sul digitale.
  • Francia: tradizionalmente ostile agli eccessi di potere delle piattaforme, Parigi deve però bilanciare la durezza regolatoria con l’esigenza di proteggere le proprie ambizioni industriali in difesa, aerospazio ed energia, settori in cui il rapporto con Washington resta delicato.

Dietro le quinte, diplomazie e sherpa della Commissione lavorano a formule creative: confermare che il “rule-book” non si tocca, ma offrire qualche margine di manovra su tempi, modalità e priorità dell’enforcement, così da rassicurare gli Usa senza smontare l’impianto delle leggi.

Pagamenti, wallet e euro digitale: il cuore nascosto della contesa

La battaglia sulle regole non riguarda solo post, commenti e fake news. Nel mirino di Washington e delle Big Tech c’è anche il capitolo più prezioso di tutti: i pagamenti digitali.

Il DMA interviene proprio sugli “ecosistemi chiusi” dei sistemi operativi mobili, imponendo ad Apple e Google di aprire l’accesso a componenti chiave come il chip NFC, finora riservato ai loro wallet proprietari. In altre parole, l’Europa vuole impedire che la rivoluzione dei portafogli digitali si cristallizzi in un duopolio definitivo made in Usa.

Qui entra in scena l’euro digitale, il progetto della Banca centrale europea per un “contante elettronico” garantito dall’istituzione di Francoforte. Senza un accesso equo agli smartphone e ai wallet, la moneta digitale della Bce rischierebbe di nascere zoppa, costretta a passare – anche in casa propria – dai cancelli altrui.

Non a caso, diversi membri del board Bce hanno spiegato che la dipendenza da pochi operatori extra Ue per carte e pagamenti è un rischio di sicurezza economica, oltre che un problema di concorrenza. DMA e DSA sono quindi anche una polizza assicurativa a favore dell’euro digitale e, più in generale, dell’autonomia tecnologica europea.

Trump e Silicon Valley: un’inedita alleanza anti-Bruxelles

Sul fronte interno americano, la nuova dottrina ha ricompattato pezzi importanti di Silicon Valley attorno a Trump. I giganti del web, dopo anni di rapporti complicati con la politica di Washington, vedono nell’amministrazione trumpiana un argine all’“esportazione del modello Bruxelles” nel resto del mondo.

In questa lettura, l’Europa non è solo un partner commerciale esigente, ma un laboratorio normativo potenzialmente contagioso: se DMA e DSA funzionano, altri Paesi potrebbero copiarli, riducendo il margine di manovra globale delle piattaforme. Sostenere Trump significa quindi, per molti colossi tech, difendere lo status quo della governance digitale internazionale.

Il messaggio lanciato dalla Casa Bianca è semplice: se Bruxelles insiste con multe e obblighi stringenti, Washington è pronta a rispondere. Il risultato è che le piattaforme digitali smettono di essere solo infrastrutture economiche e diventano strumenti di politica estera, armi negoziali da brandire sui tavoli multilaterali.

Cosa può fare l’Europa per non farsi “trumpizzare”

Per l’Unione europea la sfida è duplice. Da un lato, resistere alle pressioni di un alleato che tratta sempre più la Ue come un insieme di Stati da dividere e contrattare singolarmente; dall’altro, evitare che le spaccature interne consentano a Trump di passare in mezzo alle crepe e riscrivere, di fatto, le regole europee dall’esterno.

Alcune leve sono già sul tavolo:

  • difendere l’integrità di DMA e DSA, limitando eventuali modifiche a interventi di chiarimento tecnico e non di svuotamento politico;
  • accelerare sull’euro digitale e su un ecosistema di wallet europei, per ridurre la dipendenza strutturale dalle piattaforme di pagamento americane;
  • rafforzare gli strumenti di autonomia strategica, dall’energia alla difesa, così da avere più margine negoziale anche sui dossier digitali;
  • evitare che ogni capitale tratti “in solitaria” con Washington, mantenendo il principio di unità negoziale che è l’unico vero moltiplicatore di potere europeo.

Se Bruxelles riuscirà a reggere l’urto, il pacchetto digitale potrà diventare il cuore di una nuova identità europea nella sfera tecnologica. Se invece cederà al baratto proposto dalla Casa Bianca, la “trumpizzazione” dell’Europa smetterà di essere una provocazione giornalistica e rischierà di trasformarsi nel copione di una sovranità digitale dimezzata.

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