Terziario e crescita, Confcommercio: "Piccole imprese italiane penalizzate da fisco, burocrazia e costi energetici"

- di: Barbara Leone
 
Sul tema della bassa crescita del nostro Paese ci sono diverse letture. Nei giorni scorsi il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, su la Repubblica ha sottolineato che la terziarizzazione dell'economia nel nostro Paese non ha portato i frutti sperati perchè proprio il settore del terziario non è sufficientemente avanzato per trainare la crescita. A questa tesi ha risposto sempre dalla pagine di Repubblica, il direttore dell'Ufficio Studi di Confcommercio Mariano Bella. “Il Professor Tridico - ha detto Bella - ritorna sulle ragioni della bassa crescita italiana proponendo la non nuova lettura della modificazione della composizione della produzione da settori ad elevato valore aggiunto a settori poco produttivi (definita “economia da bar”). Ma ci sono altre chiavi di lettura. La prima riguarda la crescita della produttività del lavoro nella manifattura rispetto alla quasi stagnazione osservata nei servizi di mercato. Vero, ma si trascura di ricordare che dietro il fenomeno ci sono quasi 700mila posti di lavoro persi dall’industria negli ultimi trent’anni contro i quasi 2,8 milioni di occupati creati dal terziario. Diciamo che ognuno fa la sua parte. La seconda riguarda la taglia media troppo modesta delle imprese italiane, soprattutto nel terziario, che non farebbero investimenti limitandosi all’estrazione di una rendita dal capitale ambientale-culturale di cui disponiamo. Sono troppe, troppo piccole, troppo poco produttive”.

Terziario e crescita, Confcommercio: "Piccole imprese italiane penalizzate da fisco, burocrazia e costi energetici"

Il direttore dell'Ufficio Studi ha osservato che “attraverso i dati dell’Annual Report on European SMEs della Commissione europea si rileva, infatti, che la distanza tra il prodotto medio per occupato tra Germania (=100, giusto per considerare un benchmark mediaticamente rilevante) e Italia (=80) nel 2022 verrebbe dimezzata se la struttura produttiva dell’Italia assumesse per incanto quella della Germania (le piccole imprese diventano medie e le medie grandi) a parità di produttività del lavoro per dimensione d’impresa. Questa sarebbe la strategia che va per la maggiore, che possiamo definire “cambiamoci i connotati”. Gli stessi dati, però, dicono che le piccole imprese italiane dei servizi di mercato si possono rendere più produttive. Utilizzando la produttività delle omologhe tedesche nei soli servizi di mercato, si otterrebbe per l’Italia, con l’attuale struttura produttiva, una riduzione del 40% del gap complessivo di prodotto per occupato. Non male. Il processo richiederebbe, però, di confrontarsi con i nodi strettissimi della quotidianità dell’eccesso di carico fiscale, della burocrazia per la sua quota deprimente, dei costi dell’energia che sono più elevati in generale e, in particolare, per le imprese più piccole.
Per non parlare della qualità dei servizi pubblici alle famiglie e alle imprese o dei tempi della giustizia civile i cui effetti negativi sul tasso di investimento e sulla crescita operano in misura inversamente proporzionale alla taglia dell’impresa. Migliorare il contesto - ha aggiunto Bella - è possibile, serve un’azione determinata e lungimirante. Non serve cambiare i connotati della nostra economia e non serve disprezzare le caratteristiche del mercato e le prospettive di ulteriore crescita del terziario. Siamo quello che siamo e potremmo cominciare davvero a migliorarci se accettassimo la realtà (che, tra l’altro, nello scorrere del tempo recente dice che il turismo è più dinamico e produttivo di quanto pensiamo). D’altra parte, se il mondo va in questa direzione e se l’Italia ha un potenziale turistico (in senso lato) non adeguatamente sfruttato, ciò, in luogo di rappresentare una specie di ineluttabile maledizione, potrebbe, a ben vedere, costituire un’opportunità di crescita”
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