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Radiohead, Bologna saluta una band che torna a ferire e illuminare

- di: Giulia Caiola
 
Radiohead, Bologna saluta una band che torna a ferire e illuminare

David Urrea - CC BY-SA 4.0

Arrivare all’ultima delle quattro notti bolognesi dei Radiohead è stato, per molti, un percorso a ostacoli. Non tanto per il viaggio o la ressa ai cancelli, quanto per il sistema di vendita dei biglietti: file virtuali interminabili, controlli multipli, accessi che si chiudevano all’improvviso. Un meccanismo pensato per frenare il secondary ticketing, ma che ha lasciato migliaia di fan esclusi e un senso di impresa compiuta per chi, alla fine, ce l’ha fatta. I 15mila presenti all’Unipol Arena sapevano di assistere a qualcosa che difficilmente si ripeterà. Non per ragioni celebrative, né per un ritorno programmato. Semplicemente, perché questo gruppo non concede mai alcuna garanzia.

Radiohead, Bologna saluta una band che torna a ferire e illuminare

La scenografia, essenziale e quasi astratta, era costruita intorno a un palco circolare che permetteva una visione in 360 gradi. Pannelli Led scendevano e risalivano come membrane, filtrando la band, la luce e il pubblico. Non c’era nulla di narrativo né promozionale: nessun disco nuovo da lanciare. Solo la musica, il gesto di tornare a suonare dopo sette anni di silenzio dai live. Il resto – gesti, parole, chiarimenti – ridotto all’osso. Un paio di “buonasera”, qualche “grazie mille”, e poi la scaletta, come sempre imprevedibile.

L’urto iniziale e l’avanzare della malinconia
Apre “2+2=5”: un brano che è già un programma, teso e geometrico, un grimaldello che scardina l’attesa. Poi, senza transizioni accomodanti, la band ribalta direzione con “Airbag”, la traccia d’apertura di OK Computer: limpida, inquieta, ancora pulsante nonostante i 28 anni trascorsi dalla sua pubblicazione.

Yorke, 57 anni, entra come sempre in una sorta di trance che è postura, linguaggio corporeo, vulnerabilità esposta. Barcolla, danza senza ritmo, si piega e si ricompone in controluce, trasformando ogni movimento in un prolungamento della voce. Quella voce che da trent’anni oscilla tra confessione e denuncia, tra intimità e vertigine.

La malinconia prende spazio con “All I Need”, Yorke al piano che trascina la sala dentro un amore che è insieme dipendenza e resa. Le luci si fanno morbide, il pubblico si acquieta, si entra in quel territorio intermedio – mai confortevole – dove i Radiohead aspettano chi li ascolta.

I nodi del presente e la scelta di tacere
Le polemiche degli ultimi mesi, soprattutto sulla mancata presa di posizione immediata del gruppo sul conflitto israelo-palestinese, hanno incendiato forum e social. Yorke ha poi dichiarato al Sunday Times: “Non suoneremo più in Israele finché c'è Netanyahu”. Una frase che ha chiarito la prospettiva politica, ma non ha scalfito l’abitudine della band a lasciare che siano le canzoni, più che le dichiarazioni, a farsi portatrici di senso.

Le canzoni che non invecchiano

“No Surprises” illumina la platea, trasformandola in un’unica onda luminosa. Poi arriva l’accoppiata che paralizza e commuove: “Exit Music (For A Film)” e “Street Spirit (Fade Out)”. Silenzio quasi liturgico, una specie di sospensione che si spezza soltanto dopo un lungo istante, quando l’arena esplode in un applauso che più che entusiasmo sembra gratitudine.

Quasi tutto il repertorio delle sere precedenti torna: “Ful Stop”, “Weird Fishes/Arpeggi”, “Nude”, “Pyramid Song”, e naturalmente “Paranoid Android”, che continua a risuonare come il manifesto di una generazione disorientata e lucida, un piccolo poema distopico che non perde mai intensità. Il concerto si chiude con “Everything In Its Right Place”, stratificata, irregolare, un addio che non ha nulla di rassicurante: un inno sghembo, magnifico, che lascia aperta più di una domanda.

Una voce in italiano, un commiato senza retorica

Alla fine, Yorke si avvicina al microfono e sussurra: “Grazie a tutti, non abbiamo parole”. Lo dice in italiano, come fosse un debito da saldare. Non annuncia nulla, non promette ritorni, non offre anticipazioni. La band si ritira così come è arrivata: con pudore, lasciando il resto a ciò che è accaduto sulla scena.

Un arrivederci che non rassicura

L’ultima notte dei Radiohead a Bologna non è stata una celebrazione del passato, né un annuncio velato sul futuro. È stata, più semplicemente, una dimostrazione della loro irriducibile natura: sfuggenti, imprevedibili, luminosi e ruvidi. Una band che, anche quando sembra la stessa, cambia pelle. E che, proprio in questa mutevolezza, trova la sua coerenza.

Per i 60mila fan che li hanno visti nel corso delle quattro date, resta la sensazione di aver attraversato un luogo temporaneo, destinato a dissolversi fino alla prossima volta. Se ci sarà.
E se non ci sarà, nessuno potrà dire di non essere stati avvertiti.

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