Nelle regioni italiane, la spesa sanitaria non pesa allo stesso modo. In un angolo dell’entroterra campano, il direttore di un’ASL sfoglia tabelle e verbali: “Con questi numeri, non possiamo garantire il servizio che i cittadini si aspettano”. A 900 chilometri di distanza, in una provincia emiliana, un suo collega riceve l’ennesima conferma dell’ampliamento del personale: “Possiamo assumere altri infermieri, finalmente”. Le due frasi non fanno parte di due epoche diverse. Sono pronunciate lo stesso giorno, nello stesso Paese. E raccontano meglio di qualsiasi grafico il perché la Corte dei Conti, con un recente rapporto, abbia chiesto di cambiare radicalmente prospettiva: la spesa per il personale delle ASL non va più valutata su scala nazionale, ma va letta, interpretata e gestita a livello regionale.
Dentro le stanze del personale sanitario: un viaggio nell’Italia che cura e combatte i numeri
C’è un’Italia che assume, e una che fatica a coprire i turni. C’è un Sud dove la spesa per il personale sanitario è ancora inchiodata sotto i livelli del 2008, e un Nord dove gli investimenti crescono. Ma i confronti restano a livello nazionale, come se le condizioni di partenza fossero uguali, come se i territori avessero la stessa popolazione, lo stesso tasso di anzianità, la stessa domanda di cure. La Corte dei Conti, nel suo ultimo referto sulla sanità, ha detto quello che molti sanno ma pochi vogliono ammettere: il Servizio Sanitario Nazionale è formalmente unitario, ma di fatto è un mosaico di 21 sistemi diversi. E giudicarli con un’unica lente è non solo fuorviante, ma potenzialmente dannoso.
Personale sotto organico e sistemi sotto pressione
L’incontro con i professionisti in trincea lo conferma. A Catanzaro, un medico racconta: “Siamo sempre al limite. Se si ammala uno di noi, si salta un turno o si chiude un ambulatorio”. A Trieste, invece, si lavora sotto pressione, ma con margini di manovra: “Abbiamo potuto rinnovare il contratto a dieci operatori sociosanitari. Senza di loro sarebbe stato difficile sostenere i nuovi servizi territoriali”. Le parole si rincorrono lungo la Penisola e restituiscono la realtà di un sistema che si regge su equilibri fragili. Ogni taglio lineare, ogni vincolo imposto senza considerare il contesto rischia di produrre fratture. E di allargare le disuguaglianze già presenti tra chi può curarsi vicino casa e chi è costretto a emigrare.
La spesa per il personale non è un costo, è una scelta politica
Nella contabilità pubblica, le voci di bilancio sono tutte numeri. Ma dietro ogni cifra legata al personale sanitario c’è una decisione. Quante ore può tenere aperto un pronto soccorso? Quanti medici di famiglia sono disponibili in una zona interna? Quante ostetriche può avere un ospedale di provincia? Ridurre la spesa per il personale significa, in concreto, ridurre l’accesso alle cure. La Corte dei Conti non usa parole enfatiche, ma il messaggio è chiaro: serve una pianificazione della spesa fondata sul territorio, non sul centralismo. Ogni regione ha le sue esigenze, e ogni sistema sanitario locale deve essere messo in condizione di rispondere alle domande dei suoi cittadini.
Regioni virtuose o fortunate? I rischi della contabilità comparativa
Il modello attuale tende a premiare le regioni che spendono meno, ma non sempre questa spesa contenuta è frutto di efficienza. In molti casi si tratta di sottofinanziamento, di personale che manca, di servizi mai attivati. Il problema non è solo contabile. È culturale. Finché si continuerà a giudicare le regioni sulla base della “spesa pro capite”, senza valutare indicatori come la qualità dell’assistenza, la riduzione delle liste d’attesa o l’accessibilità dei servizi, si rischia di perpetuare un’idea distorta di buona gestione. E di penalizzare proprio chi ha più bisogno di rafforzare la rete dei servizi, soprattutto in territori dove la fragilità sociale si somma a quella economica.
L’invito della Corte: contare meglio per curare di più
Il documento della magistratura contabile non impone soluzioni, ma apre una strada. Misurare su base regionale significa accettare che l’uniformità non è sinonimo di equità. E che servono criteri nuovi per giudicare la spesa sanitaria. L’obiettivo non è allentare i controlli, ma renderli più aderenti alla realtà. E permettere, anche grazie ai nuovi fondi del PNRR e alle assunzioni legate alla riforma dell’assistenza territoriale, di ricostruire un sistema sanitario che non costringa più i cittadini del Sud a prendere un treno per curarsi. Perché la vera sfida, oggi, è questa: fare in modo che un infermiere in Calabria conti quanto uno in Lombardia. E che ogni euro investito in sanità sia una garanzia, non una deroga.