L’obsolescenza dei divisori
Dall’esemplare cugino svedese, l’incompiuto sistema contributivo italiano può imparare molte lezioni. Una riguarda la flessibilità in uscita che la legge di bilancio in itinere si ostina ad affrontare con strumenti inadeguati. I complessi fondamenti della lezione svedese non aiutano a comprenderne l’importanza. Occorre ridurli in termini semplici, pagando il prezzo di qualche inesattezza.
Il sistema contributivo calcola la pensione rapportando il montante dei contributi versati dopo il 1995 a un “divisore”, decrescente con l’età, che (trascurando aspetti quali la reversibilità) basterà definire come una stima della vita residua. I divisori sono aggiornati ogni due anni per inseguire la longevità che cresce nel tempo.
Quelli in vigore sono basati sulla “tavola di sopravvivenza” rilevata dall’Istat nel 2021. In particolare, per chi va in pensione a 61 anni nel 2024, il divisore è basato sui “tassi di sopravvivenza” indicati dalla tavola alle età da 61 anni in poi, fino al tetto convenzionale di 119. Per semplicità, si può dire che il primo tasso misura in che percentuale i sessantunenni del 2020, nati nel 1959, sono sopravvissuti fino a compiere 62 anni nel 2021. In altri termini, misura la “capacità” dei nati nel 1959 di sopravvivere un anno al sessantunesimo compleanno. Analogamente, il secondo tasso misura la capacità dei nati nel 1958 di sopravvivere un anno al sessantaduesimo, il terzo quella dei nati nel 1957 di sopravvivere un anno al sessantatreesimo, e così via fino all’ultimo tasso che misura la capacità dei nati nel 1901 di sopravvivere un anno al centodiciannovesimo compleanno.
Viene ora il punto. Chi va in pensione a 61 anni nel 2024 è nato nel 1963. Perciò è destinato a una vita residua più lunga di quella stimata dal divisore basato sui tassi di sopravvivenza sperimentati nel 2021 dai nati fra 4 e 62 anni prima di lui. In tal senso il divisore stesso può dirsi “obsoleto”.
L’età considerata non è casuale. Infatti, 61 anni è l’età media dei pensionamenti anticipati, confermata dai dati sulle pensioni decorrenti dal primo trimestre 2024 (è confermato anche che i pensionamenti anticipati superano di gran lunga quelli di vecchiaia).
Ripetendo il ragionamento per età diverse, emerge che l’obsolescenza del divisore decresce all’aumentare dell’età. Ad esempio, per chi va in pensione a 67 anni, anziché 61, il divisore è basato sui tassi di sopravvivenza sperimentati dai nati fra 4 e 56, anziché 62, anni prima di lui.
I falsi luoghi comuni
In conclusione, i divisori obsoleti generano pensioni superiori ai contributi versati, e il “premio” è responsabile di un deficit strutturale che pregiudica la conclamata capacità del sistema contributivo di garantire l’equilibrio tendenziale fra la spesa e il gettito. Anche l’equità è pregiudicata perché il premio è maggiore per chi va in pensione più giovane.
Dall’analisi scaturiscono due indicazioni di policy:
- le età “pensionabili” (alle quali si può andare in pensione) devono essere abbastanza elevate da contenere il deficit strutturale entro limiti finanziariamente sostenibili;
- il loro campo di variazione (cioè la distanza fra l’età minima e quella massima) deve essere abbastanza ristretto da contenere le iniquità entro limiti socialmente accettabili.
Il modello svedese
Il sistema contributivo svedese segue entrambe le indicazioni. Infatti, consente di andare in pensione fra 66 e 69 anni (a prescindere dall’anzianità contributiva). Ogni forma di anticipazione è esclusa con l’eccezione della “pensione provvisoria” che può essere chiesta da chiunque abbia superato 63 anni.
Benché calcolata secondo la regola contributiva, cioè rapportando il montante contributivo maturato alla richiesta per il vigente divisore all’età del richiedente, la pensione provvisoria è configurata come un “prestito” da rimborsare al compimento dell’età pensionabile minima. Il rimborso avviene decurtando il montante contributivo maturato in quel momento, e la pensione “definitiva” è calcolata rapportando il montante residuo al vigente divisore dei 66 anni.
Insomma, la pensione provvisoria è, in realtà, un “assegno di accompagnamento” a spese del richiedente, cioè compensato da una pensione inferiore. Il suo scopo è di aumentare la flessibilità in uscita senza pregiudizio per la sostenibilità e l’equità del sistema. Resta il deficit “ordinario”, generato dall’obsolescenza che, in minor misura, affligge i divisori alle età pensionabili (66‑69 anni). A contrastarlo è deputato il balance mechanism: un algoritmo correttivo della spesa che i politici italiani non avrebbero mai l’umiltà di studiare.
Il caos italiano
In Italia, la pensione provvisoria è stata adottata dalla cassa autonoma degli ingegneri e architetti (Inarcassa), il cui sistema contributivo è migliore, anche sotto altri profili, di quello pubblico.
Riguardo a quest’ultimo (che si caratterizza per un’età pensionabile rigida di 67 anni in luogo della fascia quadriennale svedese), l’adozione della pensione provvisoria dovrebbe fare i conti con le pensioni “miste” della fase transitoria, non ancora esaurita dopo trent’anni dalla riforma Dini. L’anticipo della quota retributiva (necessario per allinearne la decorrenza con quella della quota contributiva a carattere provvisorio) dovrebbe essere corretto in senso attuariale. In alternativa, le annualità anticipate potrebbero essere configurate come parte del prestito e quindi detratte anch’esse dal montante contributivo maturato al compimento dell’età pensionabile.
Qualunque scelta fosse fatta per gestire nel modo migliore la fase transitoria, a regime la pensione provvisoria conferirebbe flessibilità “indolore” al sistema contributivo superando l’attuale babele di particolarismi, cui concorrono l’Ape sociale e le tante forme “riservate” di prepensionamento, tutte subordinate a requisiti opinabili come l’anzianità contributiva, l’età di avvio della contribuzione, l’usura o la gravosità del lavoro svolto, il genere e il numero dei figli, l’invalidità propria o dei familiari, la disoccupazione, e chi più ne ha più ne metta.