Covid-19, De Rita: "Dalla crisi si esce aiutando le imprese, non i singoli"

- di: Mimmo Sacco
 

Il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, è uno dei più attenti osservatori delle dinamiche della società italiana, che studia da decenni, spesso assumendo posizioni critiche hanno alimentato vivaci dibattiti sul futuro di un Paese che evidenzia contraddizioni e divisioni apparentemente insolubili.

 Al prof.De Rita, Italia Informa ha rivolto alcuni quesiti sulle ripercussioni che l'epidemia determinata dal Coronavirus ha determinato in Italia e sugli strumenti che il Paese si è dato o dovrebbe darsi per prepararsi a ripartire.

 Presidente De Rita, stiamo attraversando una drammatica crisi sanitaria, ma, una volta superata, nulla sarà – si dice – come prima. Non è più realistico e concreto provare ad affrontare, in modo diverso, vecchi problemi come le disuguaglianze sociali?

È molto difficile, perché le disuguaglianze sociali vengono, naturalmente, da processi molto complessi che sono sempre simili a quelli di sviluppo. Le disuguaglianze sociali vengono da realtà storiche particolari, in cui alcuni soggetti vanno avanti, altri rimangono indietro, alcuni si arricchiscono, altri restano poveri, perché sono i processi storici che fanno le diseguaglianze. Quindi, affrontare le disuguaglianze in quanto tali, senza andare alla profondità dei processi che le hanno provocate, è sostanzialmente inutile. In questo momento dobbiamo cercare di riprendere il processo di sviluppo in modo tale che sia abbastanza largo come soggetti, come obiettivi, come traguardi da potere, insieme, anche rimettere in eguaglianza la realtà sociale.

Per fotografare l’oggi molti ricorrono alla metafora della guerra (lo hanno fatto Conte, Draghi ed altri). Lei vede analogie? E come possiamo attrezzarci per evitare che lasci segni indelebili?

Io amo di più la metafora del dopoguerra a quella della guerra. Noi, in questo momento, dopo questa epidemia, siamo in una situazione molto simile a quella del ’45-46. Cioè macerie, disillusioni, frustrazioni, un popolo di vinti, un popolo che non aveva più motivazioni perché le aveva spese tutte per fare il fascismo e la guerra. Oggi il problema è che non siamo in guerra, ma in un dopoguerra che è molto diverso, molto complicato perché mentre la guerra ha delle regole del gioco (come anche quella contro il coronavirus), il dopoguerra non ha regole del gioco, ma si fida soltanto della capacità dei singoli, delle comunità locali, degli imprenditori, di tutti, di rimboccarsi le maniche e andare avanti. Resto ottimista anche in questi giorni. Il Paese ce la farà, ma servirà una forte carica positiva.

In questo contesto economico si avverte l’esigenza di rivedere nel suo insieme (in modo sistemico) il modello di welfare, dello Stato sociale? Con quali criteri?

C’è da augurarsi che non ne facciano le spese i ceti sociali più deboli. Il problema del welfare negli ultimi venti, trent’anni è stato quello di personalizzarlo, di soggettivizzarlo, cioé di renderlo in qualche modo coerente con le aspirazioni e i bisogni soggettivi. Ad esempio, il sistema della previdenza è andato sempre più verso un aumento delle polizze personali, della previdenza personale, di gruppo, di categoria, lasciando da parte l’idea del welfare per tutti i cittadini. Così la sanità è stata una corsa a fare interventi sulla soggettività del malato.Tutto il sistema di welfare ha avuto questa vocazione: stare vicino al soggetto. Invece con la pandemia ci siamo accorti che la soggettività dei singoli crea sistemi, comportamenti, attese che non hanno nulla a che fare con il momento acuto di una pandemia in cui occorre salvare la gente e non bastano quindi le cliniche private, non basta l’assicurazione privata, non basta il lavoro comunitario. C’è bisogno di un intervento straordinario, di una spesa che solo lo Stato può sostenere. Oggi, quindi, bisogna forse recuperare questa logica statalistica, superando quella personalistica e privata del welfare.

Con l’emergenza della pandemia crescono anche le emergenze economica e sociale che colpiscono pesantemente il mondo del lavoro, rendendo ancora più precario e incerto il futuro dei giovani, quelli ad esempio con i contratti di lavoro in scadenza. E poi?

In questo momento non riesco proprio a parlare del mondo del lavoro. È tutto molto confuso, come lo era già prima dell’emergenza. C’era uno sviluppo di lavori, lavoretti extracontrattuali, di lavori personali, di moltiplicazione di imprese individuali, di bed&breakfast per il turismo, di consegne a domicilio per il commercio, c’era una proliferazione di lavori non codificati che rendeva difficile fare qualsiasi previsione o programma per il mondo del lavoro. Oggi è ancora peggio perché in fondo la crisi crea un’ulteriore frammentazione della voglia, del bisogno di ciascuno di far da soli . Quindi tutto meno regolabile. L’unica cosa che, invece, purtroppo sembra regolabile, perché a misura di decisione umana, è l’aumento dei bonus alla persona: cioè in un meccanismo di contrasto e di emergenza io do bonus, ma solo lo Stato può dare i bonus e quando ne hai dati uno dopo l’altro (dal primo che dette il Governo Renzi all’ultimo , che è quello di prevedere un bonus per le vacanze) poi dentro c’è tutto: il bonus bebè, il bonus maternità, il bonus libri. Alla fine, fra un anno, lo Stato non avrà più un euro in cassa. Non si può solo aspettare il bonus dello Stato.

Ci aspetterebbe, quindi, un futuro piuttosto problematico.

Direi che l’intervento pubblico sul mercato del lavoro non dovrebbe essere una sovvenzione ad personam, questo non può reggere. Occorre fare sovvenzioni alle imprese, non alla singola persona, perché questo non è sostenibile sul piano della finanza pubblica.

E in quest’ottica, per avviare un necessario processo di ricostruzione del Paese, con la riscoperta di valori comunitari e di solidarietà (superando l’individualismo) non può giovare un patto tra generazioni? Tra gli anziani con i loro bagagli di valori e di esperienza e i giovani con la loro carica di vigore e concretezza? Sapranno questi ultimi rompere i vecchi schemi?

Sarebbe molto bello, ma di patti generazionali non ne ho mai visti in nessun Paese perché il rapporto tra le generazioni si fa con processi quotidiani. Secondo me, i patti tra generazioni, e anche quelli intergenerazionali, richiedono un meccanismo di conflitto reale da superare con un atto di convergenza. È questo il patto. Ritengo che nel conflitto reale, magari tra operai e padroni, ci si può arrivare, tra generazioni è molto più difficile: tutto sfugge.

La scomparsa di molte persone anziane segna per i giovani la perdita di un patrimonio di esperienze, di saggezza, di affetto e anche finanziario.

È vero che oggi i nonni sono in qualche modo fondamentali nella società moderna, sono quelli che sono più patrimonializzati. Moltissimi di loro hanno una pensione decente, aiutano figli e nipoti, hanno case acquistate in una irripetibile stagione della nostra storia. I nonni, quindi, hanno un peso enorme che non è soltanto la saggezza e l’affetto, è proprio un meccanismo economico preciso. Ma il problema è: su questo processo economico di patrimonializzazione, di reddito, di aiuto ai consumi, c’è o no poi un meccanismo affettivo che regge? Perché, poi, a un certo punto, alcune famiglie mettono l’anziano in Rsa, in una casa di riposo, dove poi lo lasciano. Mi rendo conto che molti cinquantenni che hanno figli hanno i loro problemi, le loro carriere. E ancora tenere in casa gli anziani può comportare un ingombro psichico. Però la tristezza che viene guardando i giornali e vedendo come sono morte centinaia di persone in casa di riposo fa pensare che un po’ di colpa di figli e di nipoti c’è. E ancora è un Paese fragile quello che non pensa agli anziani.

Presidente, credo sia opportuno, infine, riflettere sulle parole di papa Francesco che insiste sul diritto alla speranza e al coraggio. Sollecita, allo stesso tempo, lo spirito di solidarietà e sottolinea: “senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”. Non è questa la strada obbligata da percorrere?

Sul piano dell’emozione collettiva sì; sul piano delle dinamiche sociali bisogna dire che forse è meglio imprimere un po’ di coraggio più che di speranza. Ci vuole, cioè, un’intensità di impegno personale, di impegno di tutti nella vita di ogni giorno, nel superare la crisi. Occorre rimboccarsi le maniche e lavorare. Penso sia il momento giusto per riflettere a fondo e lanciare lo sguardo oltre l’orizzonte dei prossimi mesi per identificare con chiarezza i contorni del mondo che vorremmo ricostruire.

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