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Mobilitazione e navi Usa: il Venezuela al centro di una nuova tempesta

- di: Bruno Legni
 
Mobilitazione e navi Usa: il Venezuela al centro di una nuova tempesta
Venezuela, mobilitazione e navi USA: tensione alta nei Caraibi

Maduro (foto) chiama alle armi, Washington alza la posta: i Caraibi diventano il teatro di una partita che intreccia propaganda, deterrenza e reali rischi di escalation.

Il nuovo braccio di ferro tra Caracas e Washington

Il Mar dei Caraibi torna a farsi epicentro di tensioni globali. Dopo l’annuncio del Dipartimento della Difesa statunitense del 14 agosto 2025, con cui veniva ufficializzato lo schieramento di forze navali per combattere i cartelli della droga considerati “terroristi globali”, la crisi tra Venezuela e Stati Uniti ha assunto un ritmo sempre più serrato. Tre cacciatorpediniere della classe AegisUSS Gravely, USS Jason Dunham e USS Sampson – sono stati inviati al largo delle coste venezuelane, affiancati da aerei da sorveglianza e unità subacquee. La mossa ha una valenza più politica che operativa: proiettare potenza e segnare il terreno, più che avviare una vera campagna anti-narcotraffico.

Nicolás Maduro, dal canto suo, non ha perso tempo a trasformare l’annuncio americano in carburante politico. Il 19 agosto ha lanciato un piano di mobilitazione che prevede l’arruolamento di 4,5 milioni di miliziani, una forza che unisce riservisti, civili, operai e contadini, sotto l’ombrello del “Gran Plan Simón Bolívar”. Il messaggio è stato ribadito il 22 agosto con una giornata nazionale di alistamiento, un evento coreografico e propagandistico che ha visto cittadini radunarsi in piazze e cuarteles, pronti a “difendere la sovranità contro l’imperialismo” secondo la narrazione ufficiale.

Tra piazze piene e caserme vuote

Se da un lato il regime chavista rivendica una risposta popolare “massiccia”, con lunghe file di volontari registrati alle milizie bolivariane, dall’altro non mancano segnali discordanti. Alcuni cuarteles e piazze si sono rivelati semi-deserti, con venezuelani che hanno voltato le spalle all’appello di Maduro, denunciando apertamente di non voler “arruolarsi con criminali”. È l’immagine plastica di un Paese diviso: una parte della società resta fedele alla retorica patriottica del governo, un’altra appare logorata da anni di crisi economica, inflazione devastante e repressione politica.

Il paradosso emerge con forza: la minaccia esterna, incarnata dalle navi americane, diventa per Maduro uno strumento per rafforzare il consenso interno. Ma il tessuto sociale venezuelano, segnato da un esodo di oltre sette milioni di cittadini negli ultimi anni secondo dati internazionali, mostra crepe sempre più profonde.

Washington gioca la carta della deterrenza

Negli Stati Uniti la retorica è altrettanto dura. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca con un’agenda estera muscolare, ha raddoppiato la taglia su Maduro, offrendo 50 milioni di dollari per informazioni utili alla sua cattura. Lo ha definito apertamente un “narco-dittatore” responsabile di alimentare i flussi di droga verso il territorio statunitense.

La Casa Bianca insiste sulla necessità di “usare tutto il potere disponibile” contro i traffici provenienti dal Venezuela, ha dichiarato il Pentagono il 19 agosto. Tuttavia, osservatori internazionali fanno notare che l’operazione ha una forte componente scenografica: le navi USA, di fatto, non stanno ingaggiando combattimenti, ma pattugliano le acque come monito politico, mentre i cartelli continuano a operare con reti più flessibili e diffuse.

Un’eredità di dottrine e contraddizioni

Il Venezuela non è nuovo a queste dinamiche. La dottrina Monroe del 1823, che sanciva la non ingerenza europea nelle Americhe, si è trasformata nei decenni in un lasciapassare per l’interventismo statunitense nella regione. Dal golpe in Guatemala nel 1954 al sostegno ai Contras in Nicaragua negli anni ’80, la storia è punteggiata di episodi in cui Washington ha usato il proprio peso militare e diplomatico per plasmare gli equilibri latinoamericani.

Questa volta, però, il contesto è differente: la crisi economica globale, il ruolo crescente della Cina in America Latina e le divisioni interne al Venezuela rendono la partita più complessa. L’ambiguità USA — tra retorica dura e aperture economiche, come la rinnovata presenza di aziende statunitensi nel settore petrolifero venezuelano — rischia di consolidare piuttosto che indebolire il regime di Maduro.

La voce delle Nazioni Unite e la diplomazia silenziata

Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, ha invitato nei giorni scorsi entrambe le parti a risolvere pacificamente le divergenze, ricordando che “qualsiasi escalation militare rischia di destabilizzare l’intera regione”. Un appello che, però, sembra destinato a rimanere inascoltato. Sia Caracas che Washington hanno infatti interesse a mantenere alto il livello dello scontro: per Maduro è uno strumento di legittimazione interna, per Trump un messaggio di fermezza verso la sua base elettorale.

Tra paura e propaganda

Dentro il Paese il clima resta teso. I media vicini al governo rilanciano immagini di volontari sorridenti in uniforme verde oliva, mentre i canali indipendenti denunciano il carattere forzato o semi-obbligatorio di alcune adesioni. Le voci critiche descrivono la mobilitazione come un atto di propaganda, più che di reale difesa nazionale. “La vera guerra dei venezuelani resta quella quotidiana contro la fame e l’inflazione”, ha scritto l’analista Luis Vicente León.

Uno scontro che si gioca anche sul tempo

Il futuro immediato dipenderà dalla durata del dispiegamento navale statunitense. Se le navi restassero nei Caraibi per mesi, la tensione rischierebbe di cristallizzarsi, rafforzando la narrativa di un Paese sotto assedio e alimentando la militarizzazione della società venezuelana. Se invece gli Stati Uniti riducessero il dispositivo, Maduro potrebbe comunque rivendicare di aver resistito all’ennesima “aggressione imperiale”.

Per ora, il gioco resta aperto. E il Mar dei Caraibi, ancora una volta, si conferma il teatro in cui la geopolitica americana mette in scena le sue contraddizioni: potenza e propaganda, deterrenza e rischi di escalation, mentre la popolazione venezuelana resta sospesa tra fedeltà e stanchezza, tra patriottismo e sopravvivenza quotidiana.

La polveriera caraibica

Siamo davanti a un conflitto che per ora vive più di simboli che di proiettili. Ma la miscela è esplosiva: un regime che trasforma la minaccia esterna in carburante per il consenso, un’America che alterna pugno di ferro e ambiguità, un popolo diviso tra chi crede ancora alla narrazione patriottica e chi non vede futuro. È la classica polveriera geopolitica: basta una scintilla — un incidente navale, un errore di calcolo, un’escalation mediatica — perché il gioco dei simboli si trasformi in qualcosa di molto più concreto.

E allora non basteranno più le parole, né la propaganda. 

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