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Assalto da 200 miliardi al cuore industriale italiano

- di: Matteo Borrelli
 
Assalto da 200 miliardi al cuore industriale italiano

Made in Italy in vendita? Così i capitali esteri cambiano l’Italia.

Negli ultimi quindici anni l’Italia ha vissuto una stagione di shopping straniero senza precedenti. Dal 2008 al 2023 si contano poco meno di 3mila acquisizioni di aziende italiane da parte di gruppi esteri, per un controvalore complessivo intorno ai 200 miliardi di euro. E il 2024 non ha segnato alcuna inversione: le analisi di mercato indicano oltre 400 imprese italiane passate sotto controllo estero in un solo anno.

Si tratta di un’ondata che attraversa l’intero tessuto del made in Italy: manifattura, meccanica, moda, alimentare, logistica, servizi. Non è più la notizia sporadica del marchio famoso che cambia bandiera, ma una ricomposizione strutturale della proprietà delle imprese italiane. Sulle insegne restano nomi italiani, dietro le quinte gli azionisti sono sempre più stranieri.

Il paradosso è che queste imprese a controllo estero sono pochissime rispetto al totale delle aziende residenti, ma contano moltissimo. Secondo le statistiche più recenti sulle multinazionali estere, rappresentano meno dello 0,5% delle imprese, ma generano una quota rilevante di fatturato, valore aggiunto, occupazione, export e investimenti in ricerca. Un pugno di soggetti che tiene in mano leve cruciali dell’economia nazionale.

Chi compra il made in Italy: dai pneumatici agli yacht

Dietro i numeri ci sono marchi che hanno fatto la storia del Paese. Pirelli è il caso emblematico: un simbolo della Milano industriale e del miracolo economico italiano, diventato nel tempo parte della strategia globale di un gigante cinese. Nel 2015 ChemChina ha lanciato un’operazione miliardaria che ha portato alla conquista della maggioranza del capitale con un’Opa, ridisegnando la governance e spostando il baricentro strategico del gruppo. Negli anni successivi sono cambiati assetti e partecipazioni, ma il segno lasciato da quell’operazione resta profondo.

Altro nome simbolico è Ferretti Group, la “fabbrica dei sogni” della nautica di lusso made in Italy (Riva, Pershing, Mochi Craft). Stretta nella morsa dei debiti all’inizio degli anni 2010, l’azienda viene di fatto salvata dall’ingresso della cinese Weichai Power, che assume il controllo del gruppo. Da allora Ferretti ha ripreso a crescere, è tornata a investire, si è quotata sui mercati asiatici e poi anche a Milano. Il marchio resta profondamente italiano, ma la cabina di comando è in mano a un azionista estero.

C’è poi la storia di Autogrill, icona di un’Italia che si fermava “in casa propria” sulle aree di servizio autostradali. Nel 2023 la famiglia Benetton ha ceduto il proprio controllo alla svizzera Dufry, leader mondiale del travel retail. La fusione ha dato vita al nuovo gigante Avolta, che oggi gestisce una rete globale di negozi e ristorazione in aeroporti e snodi di viaggio in tutto il mondo. Sulle autostrade italiane il logo Autogrill resiste, ma il comando è stabilmente oltreconfine.

E la lista è molto lunga: marchi del lusso entrati nei perimetri dei grandi colossi francesi, brand alimentari inglobati in gruppi multinazionali, campioni della meccanica di nicchia assorbiti da player globali in cerca di competenze e brevetti. Ogni operazione ha una storia diversa, ma il risultato è identico: sempre più pezzi del made in Italy strategico sono controllati da capitali stranieri.

Perché l’Italia vende: capitali scarsi e dimensione ridotta

L’Italia non sta “regalando” le sue imprese: le sta cedendo a pagamento, spesso a valutazioni molto interessanti. Dietro ogni vendita c’è però la fotografia di un problema strutturale: aziende sottocapitalizzate, troppo piccole, spesso familiari e poco patrimonializzate.

Per molti imprenditori arrivare a una certa soglia di fatturato e complessità significa dover compiere un salto di scala: investimenti importanti in tecnologia, digitalizzazione, sostenibilità, reti commerciali. Salto che il sistema finanziario domestico, tra costi del credito e timidezze sul capitale di rischio, fatica ancora a sostenere in modo sistematico.

In questo contesto, l’arrivo di un grande gruppo estero porta in dote alcune leve difficili da rifiutare:

  • capitale fresco per ridurre debiti e finanziare nuovi progetti;
  • accesso immediato a catene globali di fornitura e distribuzione;
  • strutture manageriali e governance più robuste rispetto al modello puramente familiare;
  • possibilità di monetizzare il lavoro di una vita per l’imprenditore e la sua famiglia.

Manca, dall’altra parte, una politica industriale di lungo respiro capace di proporre alternative credibili. L’Italia ha moltiplicato crediti d’imposta e incentivi, ma non ha ancora costruito un ecosistema che permetta alle imprese di crescere rimanendo italiane, magari aprendo il capitale a partner istituzionali domestici o europei anziché essere costrette a cessioni integrali.

Quando il capitale straniero fa bene: produttività, occupazione, export

L’altra faccia della medaglia è che il capitale estero, quando arriva con un progetto industriale vero, può far bene alle imprese acquisite e al Paese. Gli studi disponibili indicano che le aziende italiane passate sotto controllo straniero registrano in media aumenti dell’occupazione, della produttività e del fatturato nei primi anni successivi all’acquisizione.

Le multinazionali estere tendono a:

  • aumentare la propensione all’export, integrando l’azienda italiana nelle proprie reti globali;
  • rafforzare gli investimenti in ricerca e sviluppo per valorizzare il know-how incorporato nel marchio;
  • introdurre standard gestionali più strutturati, dalla governance al controllo di gestione;
  • trasformare i siti italiani in poli di eccellenza di filiera (produttiva, tecnologica o di design).

Non è un caso se una quota rilevante delle esportazioni italiane è generata proprio da imprese a controllo estero, che utilizzano il “bollino” made in Italy come leva di valore aggiunto nei mercati internazionali. Per molte filiere, la scelta è stata chiara: meglio entrare in un grande gruppo globale che rimanere isolati in un mercato sempre più competitivo.

Il punto critico è che questi benefici non sono garantiti per definizione. Dipendono da almeno tre fattori:

  • la strategia dell’acquirente (rafforzare il polo italiano o svuotarlo a favore di altri stabilimenti);
  • la capacità di negoziazione del venditore e delle istituzioni locali;
  • la presenza di vincoli e impegni chiari su occupazione, investimenti, ricerca, sedi decisionali.

Il lato oscuro: quando gli stranieri comprano per chiudere o delocalizzare

Se il capitale estero può essere una cura, può diventare anche un problema quando l’operazione nasce con finalità puramente finanziarie o difensive. È il caso dei cosiddetti “acquisti predatori”, in cui il vero obiettivo non è valorizzare un’eccellenza italiana, ma:

  • neutralizzare un concorrente scomodo;
  • assorbire brevetti, marchi, tecnologie da trasferire altrove;
  • sfruttare una finestra di debolezza finanziaria per ottenere asset strategici a prezzo di saldo.

In questi casi, dopo qualche anno, il rischio è ritrovarsi con stabilimenti ridimensionati o chiusi, funzioni strategiche trasferite all’estero, centri decisionali allontanati dal territorio, mentre in Italia restano solo produzione a minor valore aggiunto e marchi da usare a fini commerciali.

La differenza tra “buona” e “cattiva” acquisizione non è dunque ideologica, ma concreta: sta nei contratti sottoscritti, nei patti parasociali, nelle clausole di salvaguardia, nel monitoraggio effettivo degli impegni presi dai nuovi azionisti.

Golden power: lo scudo (imperfetto) di Roma

Per governare questo flusso l’Italia ha messo in campo il golden power, la normativa che consente al governo di intervenire su operazioni riguardanti asset ritenuti strategici: energia, difesa, telecomunicazioni, infrastrutture critiche, finanza, tecnologie sensibili, materie prime cruciali.

L’esecutivo può imporre condizioni, dettare vincoli, fino ad arrivare al veto sull’operazione. Negli ultimi anni il golden power è stato attivato con frequenza crescente, segnale di un Paese che ha finalmente preso atto della necessità di difendere alcuni snodi essenziali dell’economia nazionale.

Il rovescio della medaglia è il rischio di usare lo strumento come barriera generica agli investimenti esteri, alimentando l’immagine di un’Italia poco affidabile per i capitali internazionali. Su questo crinale si gioca una partita delicata: proteggere ciò che è strategico senza trasformare ogni acquisizione in un caso politico.

I dossier più delicati – dalla governance di grandi gruppi industriali alla tutela dei centri tecnologici avanzati – hanno già mostrato quanto il golden power possa incidere su deleghe, composizione dei consigli, trasferimento di competenze. Ma la vera efficacia dello strumento dipende dalla chiarezza delle regole e dalla capacità della politica di usarlo in modo coerente, prevedibile, trasparente.

La vera scelta: non se vendere, ma come e a chi

Alla fine, il nodo non è stabilire se il capitale straniero sia “buono” o “cattivo”, ma capire a quali condizioni l’Italia accetta di vendere pezzi del proprio sistema produttivo. In un’economia aperta è illusorio pensare di chiudere le porte agli investitori esteri: il tema è negoziare da una posizione di forza, non di debolezza.

Questo significa, per ogni operazione rilevante:

  • pretendere piani industriali credibili e misurabili su occupazione, investimenti, ricerca;
  • difendere la presenza in Italia di sedi decisionali, centri di ricerca, funzioni ad alto valore aggiunto;
  • valutare con attenzione l’ingresso di soggetti legati a Stati che perseguono interessi geopolitici in contrasto con quelli italiani ed europei;
  • rafforzare gli strumenti di co-investimento pubblico-privato per evitare vendite dettate solo dall’urgenza finanziaria;
  • costruire alleanze industriali europee, per non arrivare ai tavoli globali sempre come obiettivi e raramente come protagonisti.

Il vero banco di prova, nei prossimi anni, sarà quindi la capacità dell’Italia di passare da Paese che subisce le offerte a Paese che sceglie i partner. Non si tratterà più di dire “vendere o non vendere”, ma di decidere come vendere, quanto vendere e a chi, con quali garanzie per il lavoro, il know-how e l’identità produttiva del made in Italy.

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