Confindustria Radio Televisioni, Rossi: "Il Servizio Pubblico va potenziato e salvaguardato ad ogni costo"

 
La realtà in cambiamento tumultuoso dei paradigmi della comunicazione, le grandi opportunità che si sono aperte e che si apriranno ma anche i grandi rischi. Intervistiamo Giampaolo Rossi, Consigliere d’Amministrazione Rai e Vice Presidente Confindustria Radio Televisioni.

Partiamo dalla fine, dalla classica domanda delle ‘cento pistole’. Il mondo della comunicazione è stato ed è decisamente sconvolto - e a volte travolto - dall’innovazione tecnologica. In ballo ci sono pilastri come pluralismo, questioni come disintermediazione della democrazia, fatti come interoperabilità delle piattaforme, conflitto tra omogeneizzazione e identità e molto altro ancora. Può fornirci alcune coordinate di quello che sta accadendo e qualche punto di orientamento per il futuro?
"Più che la domanda delle “cento pistole” lei mi sta chiedendo un vaticinio, visto che viviamo un tempo che muta con la progressione della legge di Moore. Battute a parte, io partirei dai due driver di questo processo: innovazione e informazione. L’innovazione è l’acceleratore (tecnologico e sociale); l’informazione è il catalizzatore (che sta modificando le nostre democrazie e la costruzione dell’immaginario). L’innovazione moltiplica l’informazione, ne abbatte il costo, incrementa l’accessibilità e facilita la fruizione in termini di consumo. Ma tutto questo ha un enorme prezzo in termini di qualità alla cui base ci sono fondatezza, attendibilità delle fonti e terzietà, cioè gli elementi che fondano il principio del pluralismo. Una valida inchiesta giornalistica ha costi e tempi che stanno diventando fuori mercato; ed in questo abbassamento della qualità generata dall’ipertrofia dei contenuti, ormai è sottomesso anche il sistema mainstream. Quando ascoltiamo i dibattiti sulle fake news, spesso ci dimentichiamo che negli ultimi due decenni le più clamorose manipolazioni dell’informazione non sono state prodotte da fantomatici terrapiattisti, ma dai grandi player dell’informazione globale capaci di condizionare l’opinione pubblica e le scelte dei governi. Ovviamente il problema può essere allargato dall’informazione all’intera filiera produttiva dei contenuti narrativi su quali costruiamo il nostro senso della realtà e la nostra identità culturale. Il rischio di manipolazione è continuo. La qualità non è un fattore che il mercato da solo riesce a bilanciare. Per questo è necessario un intervento regolatore esterno al mercato che salvaguardi la qualità del prodotto".

Lei tra le altre cose è consigliere di amministrazione della Rai. Che cosa significa a suo parere oggi il concetto di ‘servizio pubblico’ in generale per l’informazione e in particolare per una realtà come la Rai? Come si concretizza in questa fase storica? E c’è poi il nodo delle risorse: cosa al mercato e cosa allo Stato (o agli Stati)?
"Partiamo dalla fine: nelle democrazie moderne il Servizio Pubblico esiste in quanto garanzia di indipendenza; e non dalla politica (come molti ripetono ossessivamente) ma dal mercato. La politica in una democrazia è (o dovrebbe essere) espressione della sovranità popolare e quindi soggetto garante di questa indipendenza. Questo non significa che il Servizio Pubblico debba prescindere dagli ascolti ma che le sue scelte non debbano essere condizionate da questi. La Rai oggi non è solo la più grande media company italiana e una delle più grandi aziende culturali in Europa; ma è anche l’epicentro della complessa filiera industriale radio-televisiva e multimediale e sostiene l’intera produzione audiovisiva del nostro Paese (cinema, fiction, documentari). Ma purtroppo, pur essendo secondo i parametri EBU uno dei più avanzati Servizi Pubblici la Rai è quella che ha il canone più basso in Europa (90 euro contro 140 della Francia, 185 di UK, 210 di Germania e oltre 300 dei paesi scandinavi); e di questi 90 euro (vale la pena ricordarlo) solo 74 entrano nelle casse Rai. Il vecchio duopolio ci ha lasciato un modello misto in cui la Rai svolge un ruolo anche nel mercato pubblicitario. Ma quel modello non esiste più. Oggi i veri competitor non sono Mediaset o La7, ma le piattaforme OTT come Netflix, Amazon, le Telco che producono e distribuiscono contenuti. Grandi player globali che aggrediscono l’industria dei contenuti con una potenza economica mai vista prima e con una capacità di infiltrazione nei mercati nazionali che disintermedia il ruolo dei broadcaster più tradizionali. Difficilmente i Servizi Pubblici potranno reggere questa offensiva per cui, inevitabilmente dovranno indirizzarsi maggiormente verse la loro funzione originaria pubblica e meno commerciale. Il tema delle risorse diventa quindi centrale; ed è qui che la politica deve scegliere cosa fare della Rai. Nel frattempo però i Servizi Pubblici devono riorganizzarsi nei settori strategici. Non è un caso che oggi la Rai torna ad essere presente con forza sul web (da cui era di fatto scomparsa a causa di errori industriali passati), attraverso la piattaforma di RaiPlay vero e proprio OTT; o per esempio, attraverso gli investimenti su RadioRai, che con i suoi studi digitali e i progetti di visual content, si prepara ad essere una delle radio pubbliche più avanzate in Europa".

In un’intervista lei ha affermato che, “dinanzi ai mutamenti tecnologici, ci si divide sempre in ottimisti e pessimisti. Oggi siamo costretti a confrontarci con la realtà: un’élite potentissima non sta ‘disintermediando’ la creatività, ma la democrazia. Eppure la ‘controinformazione’ è stata possibile sul web, mentre il mainstream le resta precluso”. Cosa fare allora?
"Credo che le spinte positive siano sempre destinate a prevalere nel lungo periodo; ciò è insito nel principio di autoconservazione che muove la natura. L’intelligenza dell’uomo va applicata nel minimizzare l’impatto delle inevitabili fasi negative che ogni processo porta con sé. L’innovazione tecnologica non è mai un fattore neutro: essa è un accelerazione frenetica che riorganizza il modo in cui noi leggiamo il mondo, in cui reagiamo agli stimoli, altera modelli sociali e economie. Anche la nostra democrazia rappresentativa ne risente. La globalizzazione e la rivoluzione digitale stanno attuando un processo probabilmente non previsto dai tanti supporter del One World: la concentrazione nelle mani di un ristretta élite globale di ricchezza economica, potere tecnologico e costruzione dell’immaginario. E l’utopia della democrazia diretta inseguita da molti fautori della globalizzazione, si scontra con la perdita di ruolo, soprattutto in Occidente, della classe media che è stata per due secoli il fondamento delle nostre libertà economiche e civili. L’élite ha tutto l’interesse nel favorire questo processo di disintermediazione della politica, poiché così indebolisce proprio chi dovrebbe controllarla; e lo attua a partire dalla neutralizzazione degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. E la politica di tutto questo deve farsene carico prima di soccombere. E lo può fare anche nel mondo della comunicazione liberando il mercato dai rischi di monopoli di pochi e difendendo i principi di pluralismo e trasparenza. E questo significa anche e soprattutto tutelare l’informazione e l’immaginario non allineati. Altrimenti abbiamo perso tutti".

Se la nostra libertà di espressione si esercita ormai prevalentemente sui social, resta il fatto però che queste sono piattaforme private che finiscono per penalizzare taluni contenuti, valorizzandone altri. La gerarchizzazione delle notizie e delle opinioni la decidono gli algoritmi impostati da ciascun provider. Insomma, i social come paradiso ma anche come inferno…
"Vero, è il rischio che corriamo. La rete non è uno spazio virtuale ma di fatto uno spazio reale, fisico dentro il quale agiscono identità, si generano conflitti e si sviluppano nuove sintesi. Per questo nell’attuale dibattito in Italia sulla Rete Unica un aspetto spesso tralasciato ma fondamentale è quello della Net Neutrality. Essa dev’essere considerata alla stregua di un diritto costituzionale. Andrebbe riscritto in tal senso l’abusatissimo Articolo 21 della nostra Carta. Ma credo anche la normazione da sola non basti, e che lo Stato debba mantenere alcune leve operative. Questa leva nel mondo delle comunicazioni non può che essere il Servizio Pubblico, che va potenziato e salvaguardato ad ogni costo. L’alternativa l’ha già descritta ampiamente Orwell".

Domanda impossibile, viste le variabili in gioco, ma proviamoci. Facciamo un salto in avanti di 10 anni. Come pensa sarà evoluto (o involuto) tra un decennio, rispetto ad oggi, il mondo della comunicazione?
"La prego non mi chieda profezie. La Tecnica si muove secondo un processo a spirale che accelera sempre più dimezzando i tempi di durata dei cambiamenti e rendendo difficile spesso l’adattamento dell’uomo e del mercato. Negli ultimi 30 anni la nostra società è cambiata più di quanto fosse cambiata nei 200 anni precedenti. L’unica cosa di cui ho la certezza è che fra 10 anni la mia barba non diventerà bianca… visto che già lo è. E questa è l’unica previsione che mi sento di fare".
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