Il mondo degli influencer, sempre più centrale nelle strategie di marketing dei brand, si regge su una mole impressionante di transazioni non sempre visibili al fisco. Viaggi da sogno, abiti griffati, trattamenti estetici, cene in ristoranti stellati: una parte consistente del compenso ricevuto dagli influencer non è in denaro, ma in beni e servizi. Il nodo è che questi compensi “in natura”, se legati a un’attività promozionale, sono a tutti gli effetti redditi e andrebbero dichiarati. Ma nella pratica, solo una minoranza li registra, e quasi nessuno li tassa come dovrebbe. Dietro la vetrina patinata dei social si nasconde così un’economia parallela, dove la rendicontazione è spesso inesistente.
Influencer, il lato oscuro del successo social: come sfuggono al fisco
Molti creator preferiscono non etichettare chiaramente come sponsorizzati i contenuti che promuovono un prodotto. Il messaggio resta ambiguo: non si capisce se l’influencer stia davvero consigliando qualcosa perché lo apprezza o perché lo ha ricevuto in omaggio. Ma anche in assenza di un contratto formale, se c’è un vantaggio economico ottenuto in cambio della visibilità offerta, si configura una prestazione lavorativa. Questo rende necessario – e obbligatorio – includere il valore del bene tra i redditi da dichiarare. Eppure, molti influencer agiscono in una zona grigia, sfruttando l’assenza di controlli mirati e una normativa che fatica a stare al passo con le evoluzioni digitali.
Sistemi fiscali inadeguati per il digitale
Nel sistema attuale, un influencer può agire come libero professionista, come società oppure in regime forfettario. Ma spesso queste cornici non sono sufficienti a intercettare la complessità dei flussi di denaro e beni che caratterizzano il settore. A fronte di una visibilità da migliaia o milioni di follower, le dichiarazioni dei redditi restano modeste, segno di un’evasione difficilmente quantificabile ma strutturale. Le autorità fiscali si stanno muovendo per colmare il vuoto, anche attraverso tecnologie capaci di incrociare contenuti pubblicati online con dati bancari e fatture. L’obiettivo è ricostruire il vero valore delle attività svolte.
Il paradosso dei regali fiscali
Molti influencer sostengono di non essere obbligati a dichiarare ciò che ricevono se si tratta di “regali”. Ma la legge è chiara: quando un bene viene consegnato in cambio di un’attività, come la pubblicazione di una recensione o una story, quel bene è un compenso. Il suo valore di mercato va tassato come un qualsiasi reddito. Il problema è che nella pratica la maggior parte di questi scambi non viene documentata: né da chi invia il prodotto né da chi lo riceve. La responsabilità si disperde e a farne le spese è l’equità fiscale.
La sfida di un controllo credibile
Il rischio più grande è che si consolidi un sistema in cui chi lavora nel digitale, se abbastanza seguito, riesce ad aggirare le regole con maggiore facilità rispetto ai professionisti di altri settori. Questo genera una distorsione competitiva che danneggia chi opera nella legalità. Per evitare che il successo sui social diventi una scorciatoia per evadere il fisco, servono controlli mirati, formazione per gli operatori del settore e un impianto normativo aggiornato. Senza dimenticare che, come ogni altra attività professionale, anche l’influencing ha doveri precisi verso la collettività.