Al Maxxi di Roma, fino al 13 aprile 2020, si celebra l’amore per l’architettura con il grande Gio Ponti.
Un architetto, ma soprattutto un artista capace di incarnare le istanze del XX secolo: “né classico, né moderno - come afferma Margherita Guccione, Direttore MAXXI Architettura - il lavoro di Gio Ponti è stato un unicum nella storia dell’architettura italiana del Novecento, un secolo che l’architetto ha attraversato quasi integralmente, passando dal disegno dell’oggetto d’uso quotidiano, all’invenzione di soluzioni spaziali per la casa moderna, alla realizzazione di progetti complessi calati nel contesto urbano, tenendo sempre ferma, al centro della sua ricerca, l’architettura”.
Per questa sua attività così poliedrica, Gio Ponti incuriosisce e appassiona ogni tipo di pubblico, dall’élite, all’uomo comune: le sue opere fanno parte certamente della cultura artistica del design più prestigioso, ma si rispecchiano e si ritrovano anche nel viver quotidiano in un continuo dialogo tra vocazione sociale dello spazio e quella intima privata, tra natura e architettura, tra pieni e vuoti in una continua ricerca progettuale artistica, volta alla leggerezza e alla smaterializzazione dei volumi.
Esemplare è la realizzazione del grattacielo Pirelli a Milano, con la collaborazione di Pier Luigi Nervi per quanto riguarda la struttura. Quest’opera è rappresentativa di molti dei suoi temi progettuali, dall’aspirazione della leggerezza in senso verticale con una occupazione limitata di suolo, al metodo della forma diamantata: la stessa pianta del grattacelo è una forma finita, chiusa. Come afferma Ponti: “non il volume fa l’architettura ma la sua forma chiusa, finita, immutabile”. Perché “l’architettura …quando è pura, è pura come un cristallo, magica, chiusa, esclusiva, autonoma, incontaminata, incorrotta, assoluta, definitiva.” La mostra descrive efficacemente il suo percorso artistico in un allestimento immersivo e scenografico che è stato suddiviso in otto sezioni, tante quante sono le possibili chiavi di lettura con le quali interpretare e descrivere un lavoro così articolato come quello di Ponti.
La prima sezione è dedicata alla ricerca della “casa esatta”. È il modo nuovo, versatile, moderno di Ponti di ricostruire e rimodellare gli spazi della casa che lui chiama Domus, una casa “tipica” milanese che sia vivibile e che si pieghi alle esigenze di chi la abita. Ancora negli anni 50-60 la distinzione tra zona notte, zona giorno, locali di servizio e cucina era netta. Cucina e servizi dedicati al lavoro domestico dovevano essere nascosti il più possibile dalla zona del salotto buono dove ricevere, come altrettanto fondamentali erano i corridoi che conducevano alle camere e inoltre anticamere, antibagni e una serie di vani che, se paragonati ai futuri Loft di oggi, rendevano la casa quasi più un labirinto che uno spazio dove vivere. Gio Ponti vuole uscire da questi classici schemi abitativi, progetta spazi che definisce integrati, cioè fluidi e in relazione visiva tra di loro: “non più muri, sempre muri, davanti agli occhi; non più spazi maggiori o minori, separati; non più stanze ingombre di armadioni…”.
Per definire un ambiente ci si può avvalere anche di pareti pieghevoli, a soffietto, curve o dritte. Aprendo una intera parete si possono trasformare due o più spazi in uno unico, ma più ampio “per fare della casa l’espressione della nostra individualità culturale, in accordo a tutte le condizioni dell’abitare d’oggi, anche economiche”. In questo modo la superficie dell’alloggio diminuisce, mentre quella godibile si amplifica: la sua casa esatta è dunque quella “con vedute interne più profonde, vedute che possono attraversare l’alloggio da finestra a finestra, con una trasformabilità ambientale” fino a quel momento sconosciuta. Strettamente correlato a questo cambiamento dello schema abitativo, a partire da Gio Ponti si modifica anche il modo di concepire l’arredamento: funzionalità ed eleganza formale si fondono adattandosi alla contemporaneità. Pareti organizzate, finestre arredate, mobili auto illuminanti sono le nuove invenzioni d’arredo utili alla quotidianità con le quali l’architetto precorrerà i tempi. L’oggetto d’arredo più noto di Gio Ponti è la sedia 699, la Superleggera, disegnata per Cassina, simbolo di equilibrio tra eleganza, leggerezza, solidità ed ergonomicità: lo schienale inclinato di 12 gradi consente una seduta più comoda, per Ponti una scelta per la quale “non ci vuole bravura, ma buon senso”.
La sezione successiva è dedicata allo stretto legame tra natura e architettura: nei suoi progetti studiati con Bernard Rudofsky, architetto e designer austriaco, dagli anni 30 ai ‘40 questo legame si esplicita attraverso l’uso di portici, terrazze, pergole e verande, logge e balconi. L’architettura si affaccia nella natura e, come in un rapporto osmotico, la natura entra dentro l’architettura in una ricerca progettuale improntata a un’ideale architettura mediterranea. Tra gli anni 60 e ‘70 la visione del rapporto natura-architettura diviene più intimista e concettuale. Attraverso progetti come Uno scarabeo sotto la foglia per la Villa Anguissola-Ronchi (1964), Ponti immagina un tetto che ricorda il guscio dell’insetto e nell’apice della pianta ovale inserisce un portico. Un ulteriore aspetto essenziale della “poetica” progettuale di Gio Ponti è il suo rapporto con la superficie: nelle successive sezioni della mostra ad essa dedicate, si delinea sempre più fortemente il suo modo di ragionare più per piani che per volumi, la sua attenzione è rivolta alla bidimensionalità della facciata, da bucare e piegare come un foglio di carta. Ne sono testimonianza le ville realizzate a Caracas Villa Planchart e a Teheran Villa Nemazee, indicative anche della fama internazionale raggiunta da
Ponti negli anni 50 e che prosegue con il Grande magazzino de Bijenkorf a Eindhoven e i Palazzi per i Ministeri di Islamabad, con le loro facciate bucate da aperture per sottolineare la loro leggerezza e smaterializzazione, fino all’esito finale della Concattedrale di Taranto. Per la sua struttura, l’architetto ha immaginato di sostituire le classiche cupole o torri con una vela che sovrastasse per 52 metri tutta la cattedrale: “Ho pensato: due facciate. Una, la minore, salendo la scalinata, con le porte per accedere alla chiesa. L’altra, la maggiore, accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata per l’aria, con ottanta finestre aperte sull’immenso, che è la dimensione del mistero”. Le superfici così traforate non sembrano neanche più di cemento ma diventano pura aria e luce che si innalzano nel cielo.
Già 50 anni fa, Gio Ponti ha anticipato i temi progettuali della futura ricerca architettonica, senza che la storia e la critica dell’epoca ne sottolineasse abbastanza la portata. La mostra del Maxxi si propone così di colmare questa lacuna attraverso nuove interpretazioni più approfondite del suo lavoro per restituire alla figura di Gio Ponti in generale e in particolare alla sua architettura, la giusta attenzione e centralità.
“…Amate l’architettura, la antica, la moderna. Amate l’architettura per quel che di fantastico, avventuroso e solenne ha creato – ha inventato – con le sue forme astratte, allusive e figurative che incantano il nostro spirito e rapiscono il nostro pensiero, scenario e soccorso della nostra vita.” (Gio Ponti, Amate l’architettura, 1957).