L’indimenticabile Massimo Troisi nel film “Ricomincio da tre” rispondeva durante un viaggio a chi cortesemente gli chiedeva se fosse per caso un emigrante: “Ma perché, un napoletano non può viaggiare, può solo emigrare?”
Trent’anni dopo ad emigrare non sono solo i meridionali: la Lombardia, con quasi 23 mila partenze, si conferma la prima regione da cui gli italiani hanno lasciato l’Italia alla volta dell’estero, seguita dal Veneto (11.611), dalla Sicilia (11.501), dal Lazio (11.114) e dal Piemonte (9.022). Non più con una valigia di cartone, ma con l’iPad, personal computer e magari con una laurea in tasca, giovani di un po’ tutte le regioni italiane, lasciano il nostro Paese in cerca di un futuro e di un lavoro dignitoso.
Dal rapporto 2017 “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, emerge che da gennaio a dicembre 2016 le iscrizioni all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) per solo espatrio sono state 124.076 (+16,547 rispetto all’anno precedente, che a sua volta aveva visto un incremento del 15,4%), di cui il 55,5% (68.909) sono maschi. Oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia alla volta dell’estero nell’ultimo anno ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni (oltre 9 mila in più rispetto all’anno precedente, +23,3%); un quarto ha tra i 35 e i 49 anni (quasi +3.500 in un anno, +12,5%).
Questi sono dati che dovrebbero far riflettere la politica e non solo in questo periodo di campagna elettorale. Sono dati a cui non possiamo assistere silenti, perché far passare il concetto che è meglio “scappare” altrove è qualcosa di profondamente ingiusto e sbagliato.
Mi fa rabbia pensare che un’intera generazione sia stata condannata a non avere un futuro, mi fa rabbia pensare che questo Paese non possa offrire opportunità stabili di crescita e di riscatto, mi fa rabbia pensare che qualcuno “ha deciso” che, a distanza di decenni dalla prima emigrazione, l’unica soluzione sia quella di fare la valigia ed andare altrove, facendo tornare di moda l’Australia, gli Stati Uniti, i Paesi del nord Europa, ma soprattutto il Regno Unito che, nonostante la Brexit, registra un primato assoluto tra tutte le destinazioni della nuova emigrazione.
Mi fa rabbia, perché andare via vuol dire arrendersi e la nostra (la mia) generazione non si può arrendere, ma deve reagire.
È anche per questo che leggere, anche su autorevoli testate giornalistiche, inviti neppure troppo velati a lasciare il nostro Paese mi stupisce, ma forse neanche troppo, e mi fa tornare alla mente la lettera che nel 2009 Pierluigi Celli scrisse al figlio, dal titolo “Figlio mio, lascia questo Paese”.
Se il tasso di disoccupazione giovanile è più alto di quello della popolazione adulta è anche, perché i giovani sono vittime di scelte politiche poco lungimiranti, o meglio di decisioni mai prese, rinviate per troppo tempo, scelte spesso esclusivamente demagogiche, che hanno avuto come effetto principale solo quello di far sì che i giovani italiani neo assunti siano i meno retribuiti e i meno garantiti.
Qualche anno fa, con molte concrete iniziative promosse dal Forum Nazionale dei Giovani, abbiamo cercato di far comprendere che lunghi periodi di disoccupazione e inattività, soprattutto sul versante della formazione, possono lasciare in chi è oggi giovane, profonde cicatrici, ovvero ridurre nel futuro i suoi livelli di reddito, la validità di competenze, l’occupabilità e anche lo stato di felicità e salute. Tutto questo crea ulteriore scoraggiamento, mancanza di voglia di impegnarsi nello studio e, sempre più spesso, il relativo rifugio in una realtà virtuale, nei social network, che isolano i ragazzi ancora di più dal resto del mondo e dai concreti impegni quotidiani.
Il compito più impegnativo oggi è dunque quello di riuscire ad aiutare i giovani a ritrovare fiducia e speranza nel futuro. Non è facile, se la disoccupazione è così elevata. La classe politica che ha governato nell’ultimo ventennio ha rubato alla mia generazione un futuro di cui i giovani devono cercare ora di riappropriarsi, attraverso una profonda (auto)riforma della stessa politica.
Serve che la politica, come diceva Alcide De Gasperi (che mi piace ricordare a 70 anni dall’approvazione ed entrata in vigore della nostra Costituzione), guardi alle prossime generazioni e non solo alle prossime elezioni. Serve che la prossima legislatura sia una legislatura “costituente” per riformare il Paese, dando un netto taglio a privilegi, clientelismi e baronie.
E allora in questo Paese si dovrebbe parlare molto di più di ricerca, perché la “fuga” dei cervelli resta il fenomeno migratorio simbolo. Mi sembra impossibile che non ci siano risorse per finanziarla, in modo dignitoso, garantendo assegni di ricerca che possano consentire il giusto sostentamento a chi è impegnato in questo ambito che tanti risultati ci ha garantito negli anni.
Se vogliamo garantire un futuro a questo Paese, i giovani vanno concretamente persuasi a restare, vanno convinti che nella nostra Italia, che si conferma fra i Paesi al mondo con il più elevato tasso di anzianità, c’è ancora spazio per riconoscere e premiare la “meritocrazia”.
Abbiamo professionalità che il mondo ci invidia, anzi si prende, e noi facciamo poco o nulla per trattenerle.