Dal boom delle importazioni al sorpasso sui prodotti finiti: come l’onda lunga di Pechino travolge i conti esteri italiani e mette alle strette le Pmi.
L’“invasione” delle merci cinesi in Italia non è più uno slogan, è un numero preciso: un disavanzo che nel 2024 sfiora i 45 miliardi di euro e che, secondo le proiezioni ufficiali, continuerà a gonfiarsi nel 2025.
Il paradosso è evidente: l’Italia macina un avanzo record con il resto del mondo, ma perde terreno proprio sul fronte più strategico del XXI secolo, quello dei rapporti con la seconda economia globale.
In mezzo ci sono i dazi incrociati tra Stati Uniti e Cina, una politica commerciale europea spesso lenta e divisa, e una trasformazione silenziosa ma radicale del modello industriale di Pechino: dalla fornitura di componenti a basso costo alla vendita aggressiva di prodotti finiti completi, pronti a invadere gli scaffali e a sostituire intere filiere europee.
Il conto con Pechino: un buco da 45 miliardi
I numeri dicono che la relazione commerciale è sempre più sbilanciata. Nel 2019 il disavanzo dell’Italia verso la Cina era nell’ordine dei 18-19 miliardi di euro. Nel 2024 il surplus commerciale cinese nei confronti dell’Italia supera i 34 miliardi, con le esportazioni di Pechino verso il nostro Paese che risultano circa tre volte superiori alle importazioni italiane dirette in Cina.
Secondo i dati ufficiali disponibili, nei primi dieci mesi del 2024 il disavanzo con Pechino ha già toccato quota 40,6 miliardi. A quel ritmo, la stima di fine anno converge su un deficit intorno ai 45 miliardi di euro, una cifra mai vista prima nei rapporti bilaterali tra Roma e Pechino.
Le elaborazioni di centri studi e associazioni imprenditoriali confermano che in soli sei anni il disavanzo Italia–Cina si è più che raddoppiato, con le importazioni italiane provenienti dal Dragone in crescita di oltre il 60%. In altre parole: la Cina vende sempre di più al mercato italiano, mentre l’Italia fatica a trovare spazio in Cina, nonostante la qualità riconosciuta del made in Italy.
Dove compriamo dalla Cina: chimica, elettronica, macchinari
Non è tanto ciò che esportiamo in Cina a determinare lo squilibrio (le vendite italiane restano relativamente contenute), quanto ciò che importiamo. Nel 2024 il cuore del disavanzo si concentra in pochi, grandi capitoli:
- oltre 8 miliardi di euro di importazioni nel settore chimico;
- circa 7,5 miliardi per computer, elettronica e ottica;
- intorno ai 6 miliardi ciascuno per apparecchi elettrici e macchinari.
Anche in un comparto di forza tradizionale come i macchinari, dove l’Italia riesce a esportare in Cina oltre 3,5 miliardi di euro, il saldo resta strutturalmente negativo. La dipendenza dalle forniture cinesi è particolarmente forte in alcuni segmenti chiave:
- mobilio: più di un quarto delle importazioni italiane del settore arriva dalla Cina;
- tessile: circa un quarto degli acquisti esteri è di origine cinese;
- apparecchi elettrici: oltre un quinto delle importazioni proviene da Pechino.
In pratica, su una fetta consistente di prodotti di uso quotidiano – mobili, tessuti, apparecchi per la casa, elettronica – l’Italia si è messa nelle mani di un solo grande fornitore. Se i prezzi salgono o le forniture si fermano, il sistema produttivo italiano è esposto, spesso senza piani B.
L’effetto dazi Usa: le merci cinesi aggirano Washington e vanno in Europa
A spingere l’onda cinese verso l’Europa non è solo la competitività di costo. Dal 2025 la nuova ondata di dazi statunitensi sulle importazioni da Pechino ha cambiato la geografia del commercio mondiale.
Washington ha alzato le tariffe su numerosi prodotti cinesi – in alcuni casi fino a oltre un terzo del valore – con l’obiettivo dichiarato di riportare in patria produzione e posti di lavoro.
Ma il commercio globale raramente si lascia bloccare dai muri tariffari: diversi studi di simulazione mostrano che, di fronte a un forte aumento dei dazi Usa, le imprese cinesi tendono a ridurre drasticamente le esportazioni verso gli Stati Uniti e a riallocare una parte crescente dei flussi verso l’Europa. In alcuni scenari, l’export cinese verso l’Ue viene stimato in aumento di circa il 7%, proprio come effetto di deviazione delle merci in fuga dai porti americani.
Think tank europei specializzati sulla Cina avvertono da mesi: l’Europa rischia di diventare “valvola di sfogo” della produzione cinese colpita dai dazi americani. Il risultato è visibile nei dati: le importazioni dall’Asia, e dalla Cina in particolare, crescono più rapidamente rispetto alla media, mentre le imprese europee faticano a difendere le proprie quote nel segmento medio e medio-basso di gamma, dove il prezzo è decisivo.
L’Italia, con una domanda interna debole e un sistema di difesa commerciale meno rapido rispetto agli Stati Uniti, diventa uno dei mercati più esposti: i container che non sbarcano a Los Angeles o a Houston, sempre più spesso si fermano a Rotterdam, Amburgo, Trieste, Gioia Tauro.
La mossa di Pechino: meno componenti, più prodotti finiti
Per anni il modello è stato chiaro: le imprese italiane compravano microcomponenti dalla Cina – schede elettroniche, cablaggi, pezzi meccanici – a prezzi impossibili da replicare in Europa, per poi assemblare in casa il prodotto finito, da vendere con il valore aggiunto del design e del marchio italiano.
Oggi lo schema sta saltando. In molti comparti, dalla meccanica leggera all’elettrodomestico, fino all’elettronica di consumo, la Cina non si limita più a fornire il pezzo singolo: arriva sul mercato direttamente con il prodotto finito, spesso già marcato, brandizzato e pronto per la distribuzione in Gdo e online.
Questo cambiamento ha effetti a catena:
- quando il componente viene rincarato o ritirato dal mercato, le Pmi italiane che dipendevano da quel pezzo vanno in affanno;
- se, in parallelo, lo stesso produttore cinese propone un prodotto finito completo a un prezzo inferiore al costo industriale europeo, la concorrenza diventa insostenibile;
- l’azienda italiana si trova schiacciata: non può alzare troppo i listini, ma non ha più i margini necessari per investire in innovazione e qualità.
È un passaggio di fase: la Cina non è più solo “fabbrica di pezzi” per il mondo, ma concorrente diretto sul prodotto finale. E lo diventa proprio nei segmenti in cui la manifattura italiana era storicamente più forte: arredo, illuminazione, apparecchiature elettriche, parte del tessile e dell’elettronica per la casa.
Le Pmi italiane strette nella tenaglia
L’effetto sui territori è concreto. Molte Pmi, soprattutto nei distretti manifatturieri, si scoprono fragili lungo due direttrici:
- dipendenza da un singolo fornitore cinese per componenti critici;
- pressione sui prezzi da parte di prodotti finiti cinesi che entrano nella stessa fascia di mercato.
Nei casi più estremi, la combinazione delle due forze porta alla chiusura: il fornitore aumenta i prezzi o cambia strategia, il prodotto finito cinese arriva sugli scaffali europei, l’impresa italiana non ha il tempo né le risorse per riprogettare i propri prodotti o riposizionarsi su fasce più alte.
Il risultato è un graduale arretramento industriale proprio nei segmenti medio-bassi, mentre la fascia alta di qualità resta, ma non basta da sola a riassorbire occupazione e capacità produttiva.
Non tutte le storie sono negative: alcune aziende reagiscono spostandosi più in alto nella catena del valore, puntando su servizi, manutenzione, personalizzazione, brevetti. Ma la transizione non è automatica: richiede capitale, competenze, aggregazioni aziendali. E tempo, un lusso che molti non hanno.
Cosa fa l’Europa: dazi mirati ma lenti su auto elettriche e tecnologie green
Bruxelles si è svegliata tardi, ma ora comincia a muoversi. Il caso più evidente è quello delle auto elettriche cinesi: nel 2023 la Commissione europea ha avviato un’inchiesta antisovvenzioni sui veicoli elettrici a batteria importati dalla Cina, ritenendo che beneficiassero di sussidi tali da alterare la concorrenza a danno dei produttori europei.
Nel 2024 sono scattati dazi compensativi provvisori, con aliquote differenziate per i grandi gruppi cinesi: per alcuni produttori si parla di tariffe aggiuntive nell’ordine del 17–20%, per altri si sale oltre il 35%. L’Italia, pur essendo meno esposta delle economie del Nord Europa sul fronte auto elettriche, appoggia la linea comunitaria: senza un minimo di protezione, l’intera filiera europea dell’auto rischia di venire travolta.
Lo stesso schema di vulnerabilità si intravede nelle tecnologie green: pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, biocarburanti avanzati. Le statistiche europee mostrano un deficit crescente nella bilancia commerciale delle tecnologie per la transizione energetica, con la Cina tra i principali fornitori. Il problema è che molte misure antidumping sui pannelli solari sono state lasciate decadere per favorire la diffusione del fotovoltaico a basso costo. Un vantaggio per i consumatori, ma un ulteriore colpo per la filiera industriale europea.
La questione di fondo resta irrisolta: come conciliare decarbonizzazione rapida, bollette più leggere e difesa dell’industria europea in un contesto in cui Pechino può combinare sussidi pubblici, economie di scala e controllo di materie prime critiche.
Italia tra surplus globale e buco cinese
Il quadro complessivo del commercio estero italiano non è affatto negativo, anzi. Nel 2024 il nostro Paese ha registrato un avanzo commerciale record con il resto del mondo, superiore ai 60 miliardi di euro, con performance robuste nei mercati extra Ue e un balzo verso Stati Uniti e altre economie avanzate.
In altre parole, l’Italia nel suo insieme vince la partita delle esportazioni, ma la perde sul fronte cinese. Il rischio, segnalano gli analisti, è quello di “nascondere” sotto il tappeto del saldo complessivo positivo una vulnerabilità specifica, ma potenzialmente esplosiva, nei confronti di un singolo partner: la Cina.
C’è poi un tema di politica industriale: se il surplus viene generato in pochi grandi comparti – farmaceutico, meccanica di alta gamma, agroalimentare – mentre decine di migliaia di Pmi medio-piccole soffrono la concorrenza cinese nei segmenti medio-bassi, il rischio è una polarizzazione del sistema produttivo, con territori che vincono e territori che perdono.
Che cosa può fare l’Italia (davvero)
Di fronte a questo scenario, la risposta non può essere solo “più dazi” o, al contrario, resa incondizionata al libero scambio. Alcune direttrici appaiono ormai inevitabili:
- Spingere su una strategia europea comune, invece di rispondere Paese per Paese. Le filiere sono continentali, non nazionali.
- Rafforzare gli strumenti di difesa commerciale, accorciando i tempi delle inchieste e concentrandosi sui casi in cui i sussidi pubblici distorcono in modo evidente la concorrenza.
- Aiutare le Pmi ad alzare lo “zoccolo” tecnologico: digitalizzazione, automazione, design, brevetti. Chi compete solo sul prezzo, con la Cina perde quasi sempre.
- Diversificare le catene di fornitura, puntando su altri hub asiatici, sul Mediterraneo e sull’America Latina per ridurre l’eccesso di dipendenza da un unico Paese.
- Favorire dimensioni d’impresa maggiori, attraverso aggregazioni, reti e capitale di rischio: un’azienda troppo piccola difficilmente regge shock di questo tipo.
Il punto, in definitiva, è smettere di considerare la “questione Cina” come un capitolo tecnico per addetti ai lavori. Il deficit da 45 miliardi non è solo una statistica: è un indicatore della capacità (o incapacità) del sistema Italia di stare dentro la trasformazione dell’economia globale senza perdere pezzi lungo la strada.
La Cina non scomparirà dai radar del commercio mondiale, anzi. A scegliere è l’Italia: farsi travolgere dai container o usare questa crisi come leva per ripensare, in modo strutturale, la propria politica industriale ed estera.