Trump ha scelto il successore di Powell ma non dà il nome.
Donald Trump ha rotto gli indugi: il presidente americano ha fatto sapere di aver già deciso chi guiderà la
Federal Reserve dopo Jerome Powell, il cui mandato termina a maggio 2026. Nel tragitto aereo verso un comizio, parlando con i cronisti, ha liquidato ogni incertezza con una frase destinata a far sobbalzare i mercati:
“So chi sceglierò”, ha detto, senza però rivelare il nome del prescelto.
Dietro le quinte, però, il toto-Fed si è trasformato in una corsa a un solo nome:
Kevin Hassett, attuale direttore del National Economic Council e già presidente del
Council of Economic Advisers nella prima amministrazione Trump. Le piattaforme di
prediction markets attribuiscono a Hassett probabilità che oscillano ben oltre i due terzi,
schiacciando gli altri candidati – l’ex governatore Kevin Warsh, il membro del board Christopher Waller e pochi altri – a percentuali a una cifra.
Trump, che da anni accusa Powell di essere stato troppo lento nel tagliare i tassi, stavolta non intende forzare la mano sul calendario formale: Powell resterà in carica fino alla scadenza naturale del mandato, ma il nome del successore dovrebbe arrivare prima di Natale. Nel frattempo, la sola attesa dell’annuncio ha già un effetto: la figura del futuro presidente rischia di diventare una sorta di
“shadow chair”, un presidente ombra destinato a condizionare ogni parola che esce dalla sede della Fed.
Una Fed spaccata sul taglio di dicembre
La scelta del successore di Powell arriva nel momento più delicato della politica monetaria americana. Il
Fomc, il comitato che decide i tassi, si riunirà il 9 e 10 dicembre con una domanda sul tavolo:
nuovo taglio di 25 punti base oppure pausa dopo le ultime mosse espansive?
L’istituto è apertamente diviso. Sul fronte delle “colombe” si schierano il governatore
Christopher Waller, il nuovo componente Stephen Miran, la governatrice
Michelle Bowman e il presidente della Fed di New York John Williams. Per loro, l’inflazione – pur non pienamente domata – è ormai in una traiettoria discendente, mentre il
mercato del lavoro mostra segnali di affaticamento che richiedono sostegno.
Dall’altra parte del tavolo siedono i “falchi”: la presidente della Fed di Boston
Susan Collins, il numero uno di Kansas City Jeffrey Schmid, il capo della Fed di Chicago
Austan Goolsbee, il presidente di St. Louis Alberto Musalem e il vicepresidente per la vigilanza
Michael Barr. Tutti, in modi diversi, mettono in guardia dai rischi di allentare troppo presto:
i dati sui prezzi, dicono, non sono abbastanza solidi per cantare vittoria.
A complicare il quadro c’è la paralisi statistica prodotta dallo shutdown federale: diversi indicatori chiave, a partire dal
PCE – l’indice dei prezzi preferito dalla Fed – hanno subito ritardi, lasciando i banchieri centrali a discutere sulle tendenze di inflazione e occupazione con un quadro informativo più opaco del solito.
Nel mezzo, in una posizione che ricorda un difficile equilibrismo, restano lo stesso
Jerome Powell, la governatrice Lisa Cook e il vicepresidente
Philip Jefferson. Le loro decisioni, e in particolare la capacità di Powell di costruire un
consenso minimo, determineranno se la riunione di dicembre si concluderà con un taglio, una pausa o – scenario meno probabile ma non impossibile – un voto spaccato con più dissensi formali.
Le case di investimento sono tutt’altro che allineate. Alcune grandi banche, come
Bank of America, danno ormai per probabile un nuovo taglio già a dicembre, con ulteriori mosse nel 2026. Altre, invece, scommettono su una Fed più prudente, pronta ad attendere dati più robusti sull’andamento dei prezzi prima di muoversi di nuovo.
Chi è Kevin Hassett, il super-dovish di cui tutti parlano
Per capire perché i mercati guardano ossessivamente a Kevin Hassett, basta sfogliare il suo curriculum.
Economista di scuola repubblicana, classe 1962, Hassett è passato dalla
Federal Reserve (come economista negli anni ’90) ai think tank conservatori, in particolare l’American Enterprise Institute, dove ha costruito la propria reputazione su tasse, imprese e politiche dell’offerta.
È stato consigliere economico per diversi candidati repubblicani – da John McCain a
Mitt Romney – e soprattutto presidente del Council of Economic Advisers tra il 2017 e il 2019 nella prima amministrazione Trump, contribuendo a modellare l’imponente taglio fiscale corporate varato in quegli anni. Oggi guida il
National Economic Council e siede a pochi metri dal presidente nelle riunioni chiave sulla strategia economica.
Sul fronte dei tassi, Hassett si è distinto per la sua linea fortemente espansiva. Di recente ha spiegato che, leggendo i “segnali” dei mercati, si aspetta dalla Fed un taglio da 25 punti base, ma lui preferirebbe un’azione più decisa. In un’intervista ha confessato che, se fosse alla guida della banca centrale, spingerebbe per un percorso di riduzione più rapido, coerente con la visione di Trump secondo cui l’economia americana può crescere molto più velocemente con il supporto di tassi più bassi.
Non è tutto. Hassett ha guardato con favore anche a proposte innovative e controverse, come i
mutui a 50 anni, presentati da Trump come strumento per affrontare l’emergenza casa. Una formula che amplierebbe l’accesso al credito a costo di allungare sensibilmente la durata dell’indebitamento delle famiglie. È proprio questa combinazione di tassi bassi e credito abbondante a entusiasmare la Casa Bianca e a preoccupare chi teme un ritorno a squilibri stile pre-crisi 2008.
Verso una Fed a maggioranza trumpiana
Se la scelta di Trump dovesse effettivamente cadere su Hassett, il board della Fed assumerebbe un volto inedito.
Negli ultimi due anni la Casa Bianca ha già nominato o proposto diversi membri vicini alla propria linea, e l’arrivo di un presidente esplicitamente allineato al presidente rischierebbe di trasformare il comitato in una
maggioranza 5-2 pro-Trump nelle decisioni chiave di politica monetaria.
Gli osservatori internazionali parlano apertamente di un rischio di indipendenza erosa. Finora Powell, pur tra critiche e tweet al vetriolo, ha difeso la capacità della Fed di decidere sui tassi guardando ai dati e non agli umori politici. Con Hassett al timone, e una squadra composta in larga parte da nominati di Trump, la pressione sulle decisioni diventerebbe strutturale, non più episodica.
Sul tavolo non ci sono solo i tassi. Una Fed più sensibile ai desideri della Casa Bianca potrebbe anche usare con maggiore disinvoltura gli strumenti di bilancio, come la gestione del bilancio della banca centrale e degli acquisti di titoli, per sostenere obiettivi di crescita e occupazione in vista di appuntamenti elettorali, a costo di comprimere la lotta all’inflazione.
I mercati fiutano il cambio della guardia
La sola prospettiva di un presidente dovish come Hassett ha già lasciato il segno. I rendimenti dei
Treasury decennali sono scesi in area 4%, con passaggi anche sotto questa soglia, mentre gli indici azionari hanno reagito alternando euforia e cautela: entusiasmo per tassi potenzialmente più bassi, timore per ciò che questo può significare in termini di dollaro più debole e nuove bolle sui prezzi degli asset.
Sui mercati delle opzioni aumenta il costo delle coperture contro scenari di maggiore
volatilità. Gli operatori leggono la fase attuale come un incrocio pericoloso fra tre forze: la Fed divisa, il possibile cambio di leadership a favore di Hassett, la sentenza imminente della
Corte Suprema sui dazi. Ognuno di questi fattori, da solo, sarebbe sufficiente a muovere tassi di cambio e curve dei rendimenti: sommati insieme, disegnano un quadro in cui il margine d’errore si restringe.
La mina vagante dei dazi e il giudizio della Corte Suprema
Mentre alla Fed si discute di tassi, a Washington un altro fronte può cambiare radicalmente le basi su cui si regge la strategia economica di Trump: la battaglia sui dazi imposti attraverso i poteri di emergenza previsti dall’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA).
Dopo una serie di sentenze sfavorevoli in tribunali inferiori, la questione è arrivata alla
Corte Suprema, che il 5 novembre ha ascoltato le arringhe su un pacchetto di misure tariffarie di ampia portata. Diversi giudici hanno espresso scetticismo sulla possibilità che una legge pensata per emergenze di sicurezza nazionale consenta, di fatto, al presidente di imporre dazi generalizzati su un vasto paniere di importazioni.
In gioco non ci sono solo i poteri del presidente, ma anche centinaia di miliardi di dollari di entrate fiscali. Il Tesoro ha stimato che, in caso di bocciatura, il governo potrebbe essere costretto – almeno in teoria – a rimborsare importatori per una cifra compresa fra 750 miliardi e 1.000 miliardi di dollari, un importo enorme in un momento in cui il debito federale è già sotto osservazione.
La prospettiva di rimborsi ha spinto grandi gruppi, dalla grande distribuzione all’industria, a muoversi in anticipo in tribunale per preservare il diritto a eventuali restituzioni. Una decisione della Corte è attesa entro fine anno: un esito negativo per Trump toglierebbe al presidente una parte delle entrate che intende utilizzare per finanziare nuove riduzioni fiscali e per contenere il deficit, complicando anche il lavoro della futura Fed nel dosare tassi e acquisti di titoli.
Powell fra gestione dell’emergenza e uscita di scena
In mezzo a questo incastro di tensioni politiche, giudiziarie e di mercato c’è un Jerome Powell che vede avvicinarsi la fine del proprio mandato. Il presidente uscente della Fed sta cercando di arrivare alla riunione di dicembre con un tasso di dissenso interno il più basso possibile, consapevole che ogni voto contrario verrà letto anche come un’anticipazione delle fratture future sotto la guida di Hassett o di chi per lui.
Powell ha ripetuto più volte che la banca centrale decide “riunione per riunione”, sulla base dei dati. Ma è difficile ignorare il rumore politico: Trump commenta regolarmente le mosse della Fed, invocando più tagli per contenere il costo della vita e puntare a una crescita più robusta. Se la Corte Suprema dovesse ridurre lo spazio fiscale, la tentazione di spingere ancora di più sulla leva monetaria si farebbe probabilmente irresistibile.
Il rischio, per la reputazione della Fed, è duplice. Da un lato, apparire troppo lenta nel soccorrere un’economia che rallenta e un mercato del lavoro che si indebolisce. Dall’altro, mostrare un’eccessiva
disponibilità a seguire la linea politica della Casa Bianca, sacrificando parte del capitale di credibilità accumulato in decenni di autonomia formale e sostanziale.
Cosa guardare da qui a fine anno
Per capire dove sta andando la combinazione esplosiva di Trump, Fed e dazi, i prossimi appuntamenti chiave sono già fissati sul calendario:
- 9-10 dicembre: riunione del Fomc. Il verdetto su tassi, comunicato e voto dei singoli membri dirà molto sul grado di spaccatura interna.
- Entro fine anno: probabile annuncio del nome del nuovo presidente della Fed. Se sarà Hassett, i mercati inizieranno da subito a prezzare una traiettoria di tassi più bassa e una Fed più vicina alla Casa Bianca.
- Nei prossimi mesi: sentenza della Corte Suprema sul pacchetto di dazi basati sull’IEEPA, con possibili effetti a cascata su bilancio federale, inflazione e scelte future della banca centrale.
A Washington, insomma, si gioca in contemporanea su più tavoli. Ma il filo rosso è uno solo: chi controllerà la leva dei tassi di interesse nei prossimi anni e con quali vincoli di bilancio. La risposta non arriverà tutta dalla riunione di dicembre, né da una singola sentenza della Corte Suprema. Ma, pezzo dopo pezzo, il puzzle sta prendendo forma. E il nome che Trump tiene ancora in tasca – molto probabilmente quello di Kevin Hassett – è destinato a diventare una delle chiavi di volta della politica economica americana fino al 2030.