Più barili da agosto, meno guadagni? Riad e Mosca spingono l’offerta per motivi economici e politici. Ma il surplus incombe e i prezzi scendono.
L’Opec+ fa la voce grossa, ma il mercato non si impressiona
Con una mossa che ha spiazzato analisti e trader, l’Opec+ ha deciso di aumentare la produzione di petrolio di 548.000 barili al giorno a partire da agosto, segnando un’accelerazione rispetto ai 411.000 barili già aggiunti mensilmente da maggio. La decisione, che riguarda otto membri chiave dell’organizzazione – tra cui anche Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Kazakhstan e Algeria – punta a sfruttare la domanda estiva, riconquistare quote di mercato e sostenere le economie interne.
Ma dietro questo scatto in avanti si cela un equilibrio precario: aumentare l’offerta quando i segnali di surplus si moltiplicano è una scommessa che può ritorcersi contro.
Una strategia ambiziosa, forse troppo
L’Opec+ ha cambiato rotta da aprile, abbandonando anni di tagli produttivi e lanciandosi in un rilancio aggressivo. Il motivo? Secondo l’alleanza, i “fondamentali del mercato sono solidi”, con scorte globali relativamente basse.
Tuttavia, i numeri più aggiornati raccontano un’altra storia: le scorte mondiali stanno crescendo a un ritmo di circa 1 milione di barili al giorno. La domanda cinese è debole, la produzione americana e brasiliana è in aumento e gli effetti della guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti stanno raffreddando le prospettive economiche globali.
Goldman Sachs e JPMorgan prevedono che nel quarto trimestre 2025 il prezzo del Brent possa scendere sotto i 60 dollari al barile. Da inizio anno, il benchmark ha già perso l’8,5%.
Il doppio gioco della Casa Bianca
C’è però un paradosso in questa vicenda. L’amministrazione Trump potrebbe accogliere con favore la mossa dell’Opec+. Prezzi più bassi del petrolio significano meno inflazione e un aiuto indiretto all’economia americana in vista delle elezioni di midterm del 2026.
“L’America ha più da guadagnare che da perdere in un mercato energetico abbondante”, osserva un’analisi statunitense.
Se da una parte lo shale oil americano trema per la concorrenza saudita, dall’altra il consumatore americano ringrazia: la benzina cala e il Pil ne beneficia. Ma c’è un’altra faccia della medaglia: se il greggio crolla, la Russia perde valuta estera e l’Arabia Saudita rischia di compromettere Vision 2030.
I conti (in rosso) di Riad e Mosca
Non si tratta solo di economia, ma anche di politica interna. Riad è alle prese con un deficit di bilancio crescente e ha bisogno di monetizzare più barili, anche a costo di sacrificare i margini. I mega-progetti urbanistici voluti dal principe ereditario Mohammed bin Salman – come Neom e The Line – stanno divorando risorse. Con il petrolio sotto i 70 dollari, il bilancio statale scricchiola.
Mosca non è da meno: sostenere la guerra in Ucraina ha un costo, e il Cremlino punta a vendere volumi, più che a fare profitti. Una fonte diplomatica europea ha dichiarato che “la Russia cerca ossigeno, anche se il prezzo è la destabilizzazione del mercato”. Ma è un’arma a doppio taglio: se l’Opec+ spinge troppo, il greggio potrebbe finire per costare troppo poco persino per loro.
Il rischio di una spirale negativa
La prossima tappa è già fissata: il 3 agosto i Paesi dell’Opec+ torneranno a riunirsi per decidere se procedere con un ulteriore aumento, sempre da 548.000 barili al giorno. L’obiettivo è ripristinare entro settembre l’intera capacità produttiva tagliata nel 2023: 2,2 milioni di barili al giorno.
Ma la corsa potrebbe trasformarsi in una spirale autodistruttiva. “Il rischio di sovrapproduzione è altissimo e il mercato potrebbe saturarsi proprio mentre la domanda cala per motivi macroeconomici”, avverte un’analisi specializzata. E se le banche centrali rallentano i tassi ma l’economia non riparte, l’effetto combinato sarà devastante: molto petrolio, pochi acquirenti, prezzi in caduta.
Il mercato osserva, ma non applaude
Nonostante l’entusiasmo ufficiale dell’Opec+, i mercati finanziari restano freddi. I future sul Brent restano sotto i 70 dollari al barile e gli operatori cominciano a scommettere su un possibile stallo dell’alleanza stessa.
Alcuni delegati hanno accusato Kazakhstan e Iraq di aver superato i limiti concordati, e questo avrebbe spinto Riad a “punirli” alzando ulteriormente la produzione. Un gioco di forze che somiglia più a una guerra di nervi che a una strategia coordinata.
Conclusione: il prezzo del petrolio? Sempre più una partita geopolitica
In sintesi, la decisione dell’Opec+ segna una nuova fase del mercato petrolifero globale: meno equilibrio, più rischio. Gli interessi divergenti, le pressioni interne e la voglia di rivalsa stanno guidando l’offerta più della domanda.
Ma il mercato non è un campo da gioco senza regole: se si sbaglia la dose, il crollo è dietro l’angolo. Il petrolio resta una materia prima politica: ogni barile estratto è una scommessa sul futuro, ma anche una potenziale mina sul presente. E l’Opec+ sta giocando col fiammifero in mano.