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Quando chiudono i negozi le città perdono anche valore: fino a -16%

- di: Bruno Coletta
 
Quando chiudono i negozi le città perdono anche valore: fino a -16%
Quando chiudono i negozi le città perdono anche valore
Case svalutate fino al 16%, 140mila saracinesche in meno in dodici anni, quartieri sempre più vuoti: la desertificazione commerciale non è solo un problema di vetrine spente, ma di ricchezza, sicurezza e coesione sociale. E ora il commercio di vicinato chiede un’agenda urbana nazionale stabile.

Quando le serrande si abbassano per sempre, non cala soltanto la luce nelle strade: cala anche il prezzo delle case, si svuota la socialità, si indebolisce la sicurezza di un quartiere. È la fotografia, cruda, che arriva dall’ultima indagine di Confcommercio sulla desertificazione commerciale presentata a Bologna, mentre i rappresentanti delle imprese chiedono alla politica di trattare le città come un vero “bene comune”.

Negozi che chiudono, case che valgono meno

Il dato che fa più impressione riguarda il mattone. Secondo lo studio messo a punto dall’Ufficio studi di Confcommercio con il supporto di un sondaggio realizzato da Swg, un appartamento in un quartiere colpito dalla chiusura dei negozi può perdere fino al 16% del proprio valore rispetto a zone con servizi più diffusi.

Un immobile situato in una zona ricca di negozi vale mediamente oltre il 20% in più rispetto a uno in un’area solo mediamente servita, con differenziali che nei casi estremi sfiorano il 40% tra quartieri vivi e quartieri ormai spogliati di botteghe e servizi. Il messaggio è semplice: la salute di una città si misura anche dalla densità delle attività che la animano.

La desertificazione commerciale è ormai una variabile patrimoniale: entra direttamente nei conti delle famiglie, soprattutto per chi ha investito i risparmi di una vita in una casa di quartiere che ora rischia di valere molto meno.

Dodici anni, 140mila negozi in meno

In dodici anni sono scomparsi oltre 140mila esercizi commerciali, tra negozi al dettaglio e attività ambulanti. Una emorragia che colpisce soprattutto i centri storici e i piccoli comuni, dove ogni chiusura pesa di più.

Nel frattempo, la ristorazione e l’online crescono. Ma la crescita di bar, bistrot e attività solo digitali non compensa il vuoto lasciato dai negozi di prossimità: il commercio “di strada” è presidio quotidiano, relazione, sicurezza.

Il sondaggio certifica che l’80% degli italiani prova tristezza davanti a file di saracinesche abbassate e che il 73% collega il fenomeno a un peggioramento della qualità della vita.

“Ogni insegna che si spegne è un pezzo di città che scompare”

Durante la due giorni “inCittà – Spazi che cambiano, economie urbane che crescono”, il presidente di Confcommercio ha lanciato un appello netto: “Le città non possono essere lasciate senza una visione: serve un’agenda urbana nazionale stabile e concreta che riconosca commercio, turismo e servizi come un bene comune”, ha dichiarato Carlo Sangalli.

Poi ha sintetizzato così il problema: “Ogni volta che un’insegna si spegne, si spegne anche un pezzo di città”. La desertificazione commerciale non è una guerra di categoria, ma un rischio sistemico.

Che cosa vedono i cittadini quando guardano le saracinesche

Oltre la metà degli italiani ha visto scomparire librerie, negozi sportivi e giocattoli; quasi uno su due cita abbigliamento e profumerie; segue la chiusura di ferramenta e negozi di arredamento.

Farmacie e locali sembrano invece resistere. Ma un quartiere popolato solo da locali rischia di diventare monotematico e fragile, esposto alla pressione turistica.

Nonostante l’e-commerce, il 67% vuole più negozi di vicinato e il 68% chiede un mix più equilibrato tra piccole e medie attività.

Turismo, centri storici e rischio di “parchi a tema”

Nelle città a forte pressione turistica, quasi la metà degli intervistati segnala un aumento eccessivo di attività legate al cibo, mentre cresce anche il numero di negozi per turisti con prodotti percepiti come poco autentici.

Il rischio è evidente: centri storici svuotati della vita quotidiana e trasformati in vetrine a uso e consumo dei visitatori.

Oltre l’e-commerce: perché il negozio è ancora centrale

Gli italiani non vogliono rinunciare alla fisicità dell’acquisto: il negozio di quartiere resta un luogo di relazione, consulenza e identità.

Integrare digitale e prossimità è la strada più convincente: consegne locali, piattaforme di quartiere, reti di negozi collegati.

Le proposte: rigenerazione urbana e canoni sostenibili

La prima cura è rigenerare i quartieri: più servizi, verde, mobilità dolce, spazi pubblici di qualità.

La seconda è affrontare la questione affitti: in molte città i canoni restano troppo alti per attività di prossimità. Confcommercio propone canoni calmierati e incentivi alla riapertura dei locali vuoti.

Terzo pilastro: programmi pluriennali per l’economia di prossimità, non bonus episodici.

Bologna come laboratorio nazionale

Bologna diventa così un laboratorio: istituzioni, imprese e urbanisti discutono di come trasformare i numeri in interventi concreti.

Se nulla cambierà, il rischio è una Italia da “città fantasma” entro il 2035, con strade più vuote, meno servizi e meno sicurezza.

Città come bene comune

La domanda finale è semplice: che città vogliamo tra dieci anni? Quartieri vuoti e polarizzati, o luoghi vivi in cui negozi, servizi, cultura e verde convivono?

Il destino dei negozi e quello delle città sono intrecciati. Ogni serranda che cala non è solo una vetrina che scompare: è un pezzo di comunità che smette di funzionare.

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