Disturbi alimentari, quel no definitivo che apre alla vita
- di: Barbara Leone
“Mangiare tutto, subito, sbriciolando il presente. Vomitare tutto, subito, annullando il passato. Non più controllo, ma paralisi. Il fascino discreto della morte. Del nulla... Per punirsi di qualcosa. Vendicarsi. Ingoiare le proprie incertezze. Vomitare rabbia a fiotti. Finché il corpo, esausto, non ne può più”. Leggendo questo passaggio di “Volevo essere una farfalla”, scritto da Michela Marzano, si può percepire tutto il dolore invisibile e muto di chi soffre di disturbi alimentari. Una piaga del nostro tempo con numeri che fanno accapponare la pelle. Sono circa tre milioni, infatti, le persone che nel nostro Paese convivono con questa malattia, celebrata ieri attraverso la Giornata internazionale dei disturbi alimentari. Una patologia infida e silenziosa, perché il nasconderla, anzi il vergognarsene proprio, è una delle caratteristiche principali dei Dca.
Disturbi alimentari, quel no definitivo che apre alla vita
Ed anzi, la persona che lotta coi disturbi alimentari ha una paura fottuta d’esser scoperta. Perché ha bisogno di distanza per non essere vista per come in realtà è: fragile, con l’autostima sotto i piedi ed un disperato bisogno di identità. Fame d’amore e fame d’esistere, lotta implacabile contro di sé e contro gli altri per fortificare la cittadella interiore. Quasi sempre, infatti, le persone che soffrono di Dca hanno tutto un mondo dentro inesplorato ed inesplorabile, spaventate come sono di essere respinte e di non ricevere ciò che desiderano. Fa davvero rabbrividire, poi, che ad aumentare siano i casi di giovanissimi che ne soffrono. Basti pensare che negli ultimi due anni al pronto soccorso dell’ospedale Bambino Gesù gli accessi per queste patologie sono raddoppiati.
Anoressia e bulimia in primis, ma anche binge eating (simile alla bulimia ma senza pratiche di compensazione), obesità, night eating syndrome (alimentazione incontrollata notturna dopo aver quasi digiunato tutto il giorno), disturbo da ruminazione (masticazione ossessiva a volte seguita da rigurgito del bolo già ingerito, che viene nuovamente masticato in bocca) e molti altri ancora. Il leit motiv, però, è sempre lo stesso: il cibo, con cui si innesca una vera e propria sfida identitaria. Cibo che per chi soffre di Dca rappresenta un bilanciere dell’esistenza, una maniera di forzare i limiti per sapere chi si è, di sperimentare altri modi di essere e, ancora oltre, di fare i conti con la madre nutrice. E cibo che non è mai un piacere, e nemmeno un bisogno fisiologico. Ma rappresenta un vero e proprio nemico, in un’altalena senza fine d’amore e odio. Un’ossessione, che si traduce nel contare maniacalmente chicchi di riso e calorie. O nel tagliare una mela in infinite parti facendosela bastare per tutto il giorno. Ed ancora: pesarsi più volte al giorno e su più bilance, girovagare tra gli scaffali del supermercato nella speranza di non cedere al raptus di comprarsi di tutto fino a che lei, ana o mia come vengono soprannominate dalle ragazze sui social, non ti bussa alle spalle e ti dice: ehi, guarda che ci sono. E nove su dieci volte vince lei. Anoressia e bulimia, del resto, sono le due facce della stessa medaglia e prima o poi si incrociano sulla stessa via. E così l’anoressica dopo giorni e giorni di semidigiuno finirà per abbuffarsi come se non ci fosse un domani. E la bulimica, dopo giorni e giorni di abbuffate compulsive e dopo aver vomitato l’anima, passerà la sua fase di stop al cibo. La sola differenza è la modalità, ed il fatto che un’anoressica la si può riconoscere ma una bulimica no. E forse questo rende questa malattia ancora più spietata e subdola.
Devi avere occhio: denti corrosi, tagli sulle nocche delle mani, frequenti giramenti di testa dovuti all’abuso di diuretici e lassativi, colorito spento… Se ci sei passata, le riconosci. Altrimenti è pressoché impossibile. Se ne esce? Ni. Sicuramente un buon percorso di psicoterapia aiuta a decodificarne i termini, a comprenderne le ragioni intrinseche e più profonde ed a guardarsi allo specchio senza vivisezionare il proprio corpo. E con altri occhi. Non più deformati da una percezione fallace, quella suggerita all’orecchio da ana e mia. Ma con gli occhi di un sano amor proprio e, perché no, anche con un pizzico d’orgoglio. Se ne esce, certo, ma il lavoro è duro e doloroso. E non sempre definitivo. Perché basta un nulla per ricascarci. Loro stanno lì, ana e mia, sempre sulla spalla pronte a bussarti dicendoti: ehi, io ci sono. E ci vuole una forza sovraumana per dire no. Un no definitivo, che apre la porta alla vita, al senso di sé ed all’amore.