Il lavoro italiano arretra. Lo fa silenziosamente, ma con costanza. Mentre i salari nominali crescono o, quanto meno, si mantengono stabili, il potere d’acquisto dei lavoratori si contrae. È quanto emerge in modo netto dal Rapporto mondiale sui salari 2024-2025, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) il 24 marzo, che offre una radiografia puntuale e impietosa dell’evoluzione retributiva nelle economie avanzate del G20. L’Italia, in questo scenario, registra la peggiore performance dell’intero gruppo: dal 2008 a oggi, i salari reali sono diminuiti dell’8,7%, un dato che pone il Paese in fondo alla classifica globale e solleva interrogativi non più rinviabili sulla tenuta del suo modello economico e sociale.
Crisi salariale, l’Italia resta indietro: l’ILO lancia l’allarme
A evidenziare il quadro è l’andamento dell’indice medio dei salari reali (base 2008=100) riportato nel grafico che accompagna il rapporto. Mentre Corea del Sud, Germania, Stati Uniti e Australia mostrano una crescita consistente del potere d’acquisto, l’Italia è l’unico Paese tra le economie avanzate a registrare una flessione così marcata. Nel 2024, la curva italiana si attesta al di sotto di quota 92, contro valori ben superiori a 110 nei Paesi con performance migliori. Anche economie tradizionalmente stagnanti sul fronte retributivo, come il Giappone, mantengono una traiettoria più stabile rispetto al declino italiano. Si tratta, dunque, non di una difficoltà contingente, ma di una tendenza strutturale che affonda le radici in scelte di politica economica precise e prolungate nel tempo.

Il peso della politica monetaria e delle scelte storiche
Per comprendere fino in fondo le ragioni di questa dinamica occorre risalire agli anni Ottanta, quando l’Italia aderì al Sistema Monetario Europeo (SME), accettando un regime di cambi fissi che limitava fortemente la flessibilità della politica monetaria. In quel contesto, la Banca d’Italia, pur inizialmente contraria, finì per sostenere lo SME come strumento per imporre disciplina salariale e contenere le spinte inflazionistiche. Come ricorda l’economista Nicola Acocella nel suo saggio “La politica economica nell’era della globalizzazione”, fu proprio questa subordinazione alla stabilità tedesca a introdurre un vincolo esterno permanente, orientato a moderare la dinamica retributiva.
Dall’euro all’austerità: la svalutazione del lavoro
Con l’introduzione della moneta unica, l’Italia ha perso definitivamente la leva della svalutazione per affrontare gli shock esterni. In risposta alla crisi dei debiti sovrani e agli squilibri macroeconomici, il Paese ha adottato una strategia alternativa: la svalutazione del lavoro. Bloccare i salari, comprimere il costo del lavoro, ridurre le tutele contrattuali sono stati gli strumenti privilegiati per riconquistare competitività in un contesto di vincoli fiscali stringenti e debole domanda interna. A partire dal 2012, il quadro si è ulteriormente irrigidito, con l’introduzione di misure di austerità tese più a riequilibrare la bilancia dei pagamenti che a ridurre il debito pubblico. Una strategia confermata anche da Mario Draghi nel suo “Report sul Futuro della Competitività Europea”, dove si sottolinea come la combinazione tra compressione salariale e politica fiscale pro-ciclica abbia contribuito a indebolire la domanda interna, minando al tempo stesso la coesione sociale.
Produttività stagnante, salari fermi
Nel frattempo, la dinamica tra produttività e salari ha subito un’inversione. Per oltre vent’anni, i salari italiani sono cresciuti – seppur debolmente – a un ritmo superiore rispetto alla produttività. Tuttavia, a partire dal 2022, la situazione si è rovesciata: la produttività del lavoro ha ripreso ad aumentare, mentre la crescita retributiva è rimasta pressoché nulla. Ne deriva un ulteriore elemento di squilibrio, in cui i lavoratori contribuiscono in misura maggiore alla crescita, senza però riceverne un beneficio proporzionale. Questo scollamento incide negativamente non solo sul reddito disponibile delle famiglie, ma anche sul ciclo economico complessivo, alimentando una spirale depressiva.
L’inflazione aggrava il quadro, colpite le fasce deboli
L’emergere di pressioni inflazionistiche, tra il 2021 e il 2023, ha ulteriormente aggravato la condizione dei lavoratori. Gli adeguamenti retributivi attuati in risposta all’aumento dei prezzi si sono rivelati insufficienti a compensare la perdita di potere d’acquisto. L’impatto è stato particolarmente pesante per i redditi più bassi, che destinano una quota maggiore del proprio stipendio ai beni di prima necessità, i cui prezzi hanno subito gli aumenti più consistenti. L’erosione del potere d’acquisto è diventata così non solo una questione economica, ma anche un tema di giustizia sociale.
Disuguaglianze persistenti: genere e origine ancora discriminanti
Il rapporto ILO dedica ampio spazio anche alla questione delle disuguaglianze salariali. In Italia, il gender pay gap ufficiale si attesta al 9,3%, un valore inferiore alla media europea del 14,3%. Tuttavia, se si considera la retribuzione mensile, il divario aumenta sensibilmente: 16,7% secondo l’ISTAT e fino al 20% stando ai dati INPS. A ciò si aggiunge la marcata disparità retributiva tra lavoratori italiani e migranti: questi ultimi percepiscono in media salari inferiori del 26,3%, un gap tra i più elevati dell’Unione Europea. Si tratta di differenze strutturali che riflettono segmentazioni profonde nel mercato del lavoro, spesso aggravate da forme contrattuali più deboli e da una minore rappresentanza sindacale.
Il cambio di paradigma: da export-led a wage-led economy
Di fronte a questo scenario occorre abbandonare il modello export-led, centrato sulla competitività esterna, e orientarsi verso una wage-led economy, fondata sulla crescita dei salari e sulla domanda interna. In un mondo sempre più instabile, segnato da guerre commerciali, rialzi dei tassi e crisi geopolitiche, affidarsi esclusivamente alle esportazioni espone l’economia a shock esterni difficilmente governabili. Puntare invece sulla domanda interna, attraverso un incremento generalizzato dei salari, significherebbe rafforzare la resilienza del sistema, ridurre le disuguaglianze e sostenere una crescita più equilibrata.
Un’agenda per il rilancio: produttività, investimenti e contrattazione
Per realizzare questa transizione, servono politiche economiche mirate e coerenti. La leva fiscale dovrà agire nella direzione di un alleggerimento del cuneo sul lavoro, incentivando al tempo stesso gli investimenti in innovazione e capitale umano. È necessario sostenere la produttività attraverso politiche industriali selettive e un maggiore coinvolgimento delle parti sociali nella definizione dei salari. Il rilancio della contrattazione collettiva dovrà tornare al centro del dibattito politico, non come vincolo, ma come strumento per una redistribuzione più equa dei frutti della crescita. Solo così, sarà possibile invertire la tendenza e restituire dignità e stabilità al lavoro italiano.