Ci sono silenzi che pesano più delle parole. E ci sono momenti in cui le parole diventano un’ancora per chi le pronuncia, un modo per tenere insieme i pezzi di un’esperienza che sembra quasi irreale. Cecilia Sala, per la prima volta dal suo rilascio, ha deciso di raccontare. Lo ha fatto a Che Tempo Che Fa, davanti a Fabio Fazio, con la voce ferma e la lucidità di chi ha attraversato qualcosa che non potrà mai essere spiegato del tutto. Ventuno giorni di detenzione nel carcere di Evin, in Iran. Un tempo sospeso tra la paura, la solitudine e la necessità di aggrapparsi a se stessa, di trovare un senso anche dentro le quattro mura di una cella dove la realtà si deforma e la mente vacilla.
Cecilia Sala, la paura, la resistenza e il ritorno negato: “Non tornerò in Iran”
Gli interrogatori erano infiniti. Cecilia Sala li ha vissuti incappucciata, con la faccia rivolta al muro. “Non sapere cosa accade dietro di te, sentire solo voci che fanno domande, accuse, insinuazioni, è una tortura sottile. Ti senti vulnerabile, completamente nelle loro mani.” Un’esperienza che si sedimenta dentro, che lascia un segno. Perché il carcere di Evin non è un luogo qualsiasi: è il simbolo della repressione iraniana, il cuore oscuro di un regime che da decenni usa la prigione come strumento di controllo e intimidazione. Un luogo da cui molti non escono mai, almeno non nella stessa forma in cui sono entrati.
Nel raccontare quei giorni, Cecilia non dimentica mai le altre persone che sono rimaste lì, che non hanno avuto la sua stessa fortuna. “Io avevo uno Stato che si occupava di me, che si muoveva per farmi uscire. Ma chi rimane dentro non ha nessuno. Sono ragazzi e ragazze come me, attivisti, giornalisti, studenti. Persone che hanno solo voluto raccontare la verità, e per questo ora sono prigioniere.” E il pensiero di chi resta è una delle cose che più pesa su di lei.
In isolamento, la mente diventa il nemico più grande. Cecilia Sala lo sa bene. Ha raccontato di aver trascorso le giornate leggendo le istruzioni delle buste di cibo, contando le dita delle mani. “Dovevo occupare la mente, tenerla impegnata, altrimenti la paura mi avrebbe sopraffatta. Ho temuto per i miei nervi, ho pensato che sarei impazzita.” Le piccole cose diventano essenziali per sopravvivere: il rumore di passi nel corridoio, una voce che spezza il silenzio, il contatto con le poche cose che ancora ricordano il mondo di fuori. E poi la speranza. La speranza di tornare alla normalità, alle cose belle della vita. “Pensavo che prima o poi sarei tornata a casa. E mi aggrappavo a quel pensiero.”
Ma tornare a casa non è semplice. Una volta fuori, le domande, i dubbi, il dolore si fanno ancora più pressanti. “Non tornerò in Iran, almeno finché ci sarà la Repubblica Islamica.” È una scelta dolorosa per una giornalista che ha sempre raccontato quel Paese con passione e rispetto, cercando di dare voce a chi non ce l’ha. Ma è anche una scelta inevitabile. “L’Iran è un paese che amo, ma ora so che non posso più tornarci.”
Cecilia Sala non è solo una giornalista, è una testimone. La sua esperienza è un monito per chiunque creda che la libertà di stampa sia un diritto acquisito, per chiunque pensi che raccontare la verità non abbia conseguenze. “Ogni volta che un giornalista viene arrestato, ogni volta che una voce viene messa a tacere, perdiamo tutti qualcosa.” Ma la sua storia è anche un inno alla resistenza. Alla capacità di resistere, di non cedere, di continuare a raccontare. Anche dopo la paura. Anche dopo il silenzio. Anche dopo il carcere.
Oggi Cecilia è tornata, ma non è la stessa. “Ci sono cose che ti cambiano per sempre,” dice. E le immagini di quei giorni, le sensazioni vissute, la tensione costante non scompariranno facilmente. Ma se c’è una cosa che ha imparato, è che la libertà è qualcosa che va difeso ogni giorno, in ogni modo possibile. Raccontare, anche quando fa male, è l’unico modo per rendere giustizia a chi non ha più voce.
L’esperienza di Cecilia Sala ci ricorda quanto sia fragile la libertà, quanto sia importante proteggere chi racconta la verità e quanto il mondo, anche nel 2025, sia ancora un luogo pericoloso per chi cerca di illuminarlo con le parole.