In Turchia non si protesta per un solo uomo, ma per una democrazia che da tempo si sente sotto attacco. L’arresto di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale volto dell’opposizione a Recep Tayyip Erdoğan, ha innescato qualcosa che somiglia a un terremoto politico e sociale. Sono passati cinque giorni da quando la notizia si è diffusa, e le proteste non si sono mai fermate.
Più di mille arresti in Turchia: le piazze esplodono dopo l'arresto di Imamoglu, Erdoğan stringe la morsa
La repressione, invece, è immediata e sistematica: oltre 1.100 arresti in tutto il Paese, inclusi giornalisti, studenti universitari, giovani attivisti e semplici cittadini che si erano riuniti in piazza. Le autorità turche hanno chiesto a X (ex Twitter) di oscurare centinaia di account. L’accesso ai social è stato rallentato o bloccato a intermittenza. I media tradizionali, nella maggior parte dei casi, evitano di parlare apertamente delle manifestazioni. Ma le immagini riescono comunque a circolare: cortei in silenzio, cori per la libertà, cariche della polizia, donne con cartelli che dicono “Non è solo İmamoğlu, siamo tutti noi”.
Un arresto che sa di sfida elettorale
Ekrem İmamoğlu non è un politico qualsiasi. È il sindaco della città più grande e simbolica del Paese, Istanbul, il cuore economico e culturale della Turchia. È anche l’uomo che nel 2019 ha inflitto una doppia sconfitta al partito di Erdoğan, l’AKP: prima vincendo le elezioni comunali, poi stravincendole dopo che il governo le aveva fatte annullare. Una sfida aperta, e vinta. Da allora, İmamoğlu è diventato il volto più credibile dell’opposizione, e l’unico che molti considerano in grado di battere Erdoğan alle urne.
Il suo arresto è avvenuto con l’accusa di corruzione e presunti legami con ambienti considerati “ostili alla sicurezza nazionale”. Ma le tempistiche, e le modalità, hanno fatto pensare fin da subito a un’operazione politica. L’arresto è arrivato pochi giorni prima dell’annuncio ufficiale della sua candidatura alle presidenziali del 2028. Secondo diversi osservatori, è un tentativo di farlo fuori prima ancora che inizi la campagna elettorale.
La legge turca prevede che chi venga condannato per certi reati non possa candidarsi a cariche pubbliche. Per ora İmamoğlu è solo imputato, ma se la giustizia dovesse accelerare — e in Turchia può accadere — potrebbe essere estromesso dalla corsa.
Erdoğan e il potere oltre i limiti costituzionali
Il nodo è anche quello delle regole del gioco. Recep Tayyip Erdoğan, al potere dal 2003, è formalmente giunto al limite massimo dei mandati previsti dalla Costituzione. Non potrebbe candidarsi di nuovo. Ma le modifiche costituzionali non sono un’ipotesi remota. Neppure in passato. Già nel 2017, un referendum — contestato per irregolarità — gli aveva permesso di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, accentrando su di sé enormi poteri.
Ora, il timore è che si possa fare un passo ulteriore: una nuova riforma per azzerare i contatori e permettergli di candidarsi ancora. In un simile scenario, İmamoğlu sarebbe l’ostacolo più pericoloso. Ecco perché in molti, in Turchia e fuori, leggono il suo arresto come un'operazione chirurgica, preparata a tavolino.
Un paese diviso, ma non in silenzio
La reazione della popolazione è stata immediata. Cortei spontanei, sit-in, slogan, flashmob, università occupate. Non solo a Istanbul, ma anche in città tradizionalmente conservatrici. Per molti giovani turchi, İmamoğlu non è soltanto un candidato: è il simbolo di un’alternativa possibile, l’idea che si possa cambiare senza violenza, con il voto, con il diritto. Per molti, è anche una figura nuova: istituzionale ma non rigida, laica ma non distante, moderna ma popolare.
Eppure, il governo ha scelto la linea dura. Le immagini delle cariche nelle strade parlano da sole: gas lacrimogeni, idranti, poliziotti in assetto antisommossa che trascinano via studenti. Decine di giornalisti sono stati fermati. Le associazioni internazionali denunciano una violazione sistematica della libertà di stampa.
La comunità internazionale osserva, ma tace a metà
Dall’Europa sono arrivati i primi commenti preoccupati. Germania, Francia, Paesi Bassi hanno parlato di “regressione democratica” e “accanimento giudiziario contro l’opposizione”. Il Parlamento europeo ha chiesto chiarezza. Ma a parte qualche comunicato, i toni restano bassi. Erdoğan è un partner scomodo, ma essenziale per molti paesi europei, soprattutto per la gestione dei flussi migratori.
Gli Stati Uniti osservano da lontano. Per ora nessuna dichiarazione ufficiale della Casa Bianca, mentre l’ambasciata a Istanbul ha chiesto “moderazione da entrambe le parti”, un’espressione che molti attivisti hanno trovato ambigua e deludente.
I prossimi giorni
La tensione non accenna a diminuire. I manifestanti promettono di non fermarsi. La polizia continua ad arrestare. E mentre Erdoğan tace, affidando al suo ministro degli Interni le dichiarazioni ufficiali, cresce l’impressione che il braccio di ferro non sia solo tra un uomo e un governo, ma tra due idee diverse di Paese.
La Turchia è a un bivio. Non è la prima volta, ma stavolta a giocarsi tutto non sono solo le elezioni del 2028. C’è in ballo la possibilità stessa di arrivarci, con candidati liberi, urne aperte e voti che valgono ancora qualcosa.