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America Latina, l’idea di un’alleanza per fermare l’aggressività Usa

- di: Bruno Coletta
 
America Latina, l’idea di un’alleanza per fermare l’aggressività Usa
America Latina, l’idea di un “triangolo” per fermare le pressioni Usa

Da “zona di pace” a palestra di deterrenza: Caracas, Bogotá e Città del Messico fiutano la nuova stagione di Washington e valutano un coordinamento che, fino a ieri, suonava quasi blasfemo.

(Foto: il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump).

L’America Latina ha un riflesso storico: quando qualcuno pronuncia la parola “alleanza militare”, la regione tende a fare un passo indietro. Non per ingenuità, ma per memoria: invasioni, colpi di mano, “consiglieri” con l’elmetto e promesse di stabilità finite in macerie. Eppure, negli ultimi mesi, quel riflesso sta cambiando.

Il motivo è semplice e scomodo: Washington sta riscoprendo l’emisfero occidentale come priorità strategica, con una postura più muscolare e un lessico meno diplomatico. In parallelo, tre Paesi – Venezuela, Colombia e Messico – si ritrovano nello stesso campo magnetico: pressione politica, tensione securitaria, e la sensazione di essere finiti dentro una partita più grande (migrazioni, droga, competizione con la Cina).

Il cambio di clima: “Monroe 2.0” e la regione come “frontiera”

Il documento che fotografa la svolta è la National Security Strategy 2025 della Casa Bianca. Nelle sue pagine, l’emisfero occidentale non è più il “capitolo regionale” da sbrigare in fondo: diventa il centro. Il testo parla apertamente di un “corollario” alla dottrina Monroe per ripristinare la “preminenza” statunitense nella regione e ridisegnare presenza militare e strumenti operativi, dalla guardia costiera alle missioni contro i cartelli.

Tradotto: più mare pattugliato, più confini “esternalizzati”, più pressione sui governi chiamati a “collaborare”. E – qui sta la miccia – la disponibilità a usare la forza torna a essere evocata come opzione praticabile, non come spauracchio retorico.

Venezuela: la tensione sale tra blocchi, petroliere e rischio incidente

Il punto più caldo è il Venezuela. Nelle ultime settimane, la crisi si è accesa attorno a sanzioni, traffici petroliferi e controlli navali. Una dinamica che, per sua natura, rischia sempre l’errore di calcolo: una petroliera fermata, una scorta armata, una manovra interpretata come provocazione.

Da Caracas la lettura è netta: si tratta di una strategia di strangolamento economico e di pressione politica. Da Washington, la narrativa insiste su narcotraffico, sicurezza e “stabilità”. In mezzo, c’è il mare – e la storia insegna che i mari militarizzati producono incidenti prima ancora delle decisioni.

Colombia: Petro alza la voce e chiede rispetto della sovranità

In Colombia, il tema è ancora più sensibile: il Paese è alleato degli Stati Uniti su molti dossier, ma resta allergico all’idea di operazioni militari “a domicilio”. Il presidente Gustavo Petro ha reagito con toni duri alle indiscrezioni e alle allusioni su possibili azioni armate legate alla lotta al narcotraffico. Il messaggio, in sostanza, è: cooperazione sì, tutela della sovranità prima.

La Colombia, inoltre, vive un equilibrio interno complesso – tra territori controllati da gruppi armati, economie illegali, e un processo politico che prova a tenere insieme sicurezza e diritti. In questo contesto, qualsiasi “scorciatoia” militare dall’esterno rischia di diventare benzina su un incendio già acceso.

Messico: Sheinbaum dice no a truppe straniere e invoca l’Onu

Sul fronte nord, il Messico è la cerniera di tutte le ossessioni americane: migrazione, fentanyl, cartelli, confine. La presidente Claudia Sheinbaum ha ribadito una linea che a Città del Messico è quasi costituzionale: nessuna accettazione di interventi armati stranieri. E davanti all’escalation venezuelana, ha spinto per un coinvolgimento multilaterale, chiamando in causa le Nazioni Unite per evitare un’esplosione di violenza.

In pratica, il Messico prova a fare ciò che sa fare meglio quando l’aria si fa pesante: spostare il confronto dal bilaterale al multilaterale, dove la forza bruta pesa un po’ meno e le regole un po’ di più.

Il paradosso latinoamericano: “zona di pace”, ma servono strumenti di sicurezza

Qui arriva il nodo politico: nel 2014 i Paesi della regione hanno proclamato l’America Latina e i Caraibi come “zona di pace”, impegnandosi a risolvere le controversie senza minacce o uso della forza. È un principio identitario, oltre che diplomatico. Ma una “zona di pace” non è un’area senza rischi: è un’area che prova a gestirli senza militarizzare tutto.

Oggi, però, la pressione esterna – unita alle fragilità interne – sta creando una nuova domanda: come difendersi senza tradire la propria allergia alle alleanze militari classiche? Ed è qui che circola, sempre più spesso, un’ipotesi pragmatica: non una NATO tropicale, ma una cooperazione “a geometria variabile” tra governi che, pur diversi, condividono lo stesso problema.

Che cos’è davvero un “triangolo” anti-pressioni: coordinamento, non bandiere

L’idea – semplificando – è questa: Venezuela, Colombia e Messico (con l’ombrello politico di attori come il Brasile) potrebbero aumentare il coordinamento su tre piani:

1) Diplomazia preventiva. Parlarsi prima che parlino i comunicati stampa. Creare canali rapidi per evitare incidenti, ridurre incomprensioni, disinnescare escalation.

2) Sicurezza marittima e informazione. Scambio di dati su rotte, traffici, incidenti in mare, con meccanismi di trasparenza che rendano più difficile costruire “casus belli” a colpi di propaganda.

3) Cornice multilaterale. Riattivare spazi regionali e interamericani per mettere paletti: non tanto “contro” gli Stati Uniti, quanto contro l’idea che la forza sia scorciatoia legittima. Anche organismi tecnici, come le strutture di cooperazione in difesa dentro l’ecosistema OAS, possono essere usati come sedi di dialogo e de-escalation.

Il convitato di pietra: perché le vecchie architetture non bastano più

La regione ha già conosciuto strumenti di sicurezza collettiva, come il Trattato di Rio (TIAR), nato nel dopoguerra. Ma negli anni è diventato oggetto di disaffezione, ritiri e controversie politiche. Risultato: oggi non è percepito come una cintura di sicurezza credibile, né come un’arena neutrale.

Da qui la spinta verso formule nuove, leggere, “non ideologiche” (o almeno: meno ideologiche): accordi operativi, consultazioni regolari, posture comuni sulla sovranità. È un modo per dire: non stiamo costruendo un blocco militare, stiamo costruendo un freno d’emergenza.

Brasile: Lula teme il precedente e fiuta la “catastrofe”

Il Brasile, per dimensione e peso regionale, è inevitabilmente l’ago della bilancia. E il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha lanciato un avvertimento che suona come un cartello stradale in autostrada: un intervento armato in Venezuela sarebbe una “catastrofe umanitaria” e un precedente pericoloso.

Lula non parla solo da vicino di casa: parla da leader che teme la normalizzazione di un concetto. Se passa l’idea che l’intervento esterno sia “opzione di policy”, domani può toccare a chiunque.

La domanda finale: deterrenza senza militarismo, possibile?

Il punto non è “sfidare” gli Stati Uniti. Il punto, per molti governi latinoamericani, è evitare di essere schiacciati tra due alternative tossiche: subire o militarizzarsi. Da qui l’ipotesi del “triangolo”: una via di mezzo, fatta di coordinamento politico e regole condivise, che renda più costoso – diplomaticamente e operativamente – qualsiasi salto nel vuoto.

È un esperimento fragile, pieno di contraddizioni, e con un enorme problema di fondo: i tre Paesi non sono uguali, non hanno gli stessi interessi, non hanno la stessa politica interna. Ma hanno un punto in comune che, in geopolitica, spesso basta a far partire i processi: non vogliono che il prossimo capitolo si scriva con le navi da guerra. 

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