Area Studi Mediobanca: "Moda: atteso un 2024 in rallentamento e in consolidamento"

- di: Barbara Leone
 
I primi nove mesi del 2023 dei maggiori player mondiali della moda segnano un incremento del giro  d’affari dell’8%, con mercato asiatico (+9%) ed europeo (+8%) allineati, ma Nord America in  sofferenza, unica area geografica in calo, dopo essere stata quella più brillante nel 2022. Le prime  evidenze per l’intero 2023 confermano un ulteriore anno di crescita (+7% sul 2022), anche se a un  ritmo inferiore rispetto a quello precedente, con un incremento più accentuato per i gruppi del lusso  con un +9%.  A dirlo è l’Area Studi Mediobanca, che ha presentato il nuovo report sulla Moda che analizza i dati finanziari e di  sostenibilità delle 80 maggiori multinazionali della moda con ricavi superiori a un miliardo di euro ciascuna (di cui 37 hanno sede in Europa, 29 in Nord America, 12 in Asia e due in Africa) e delle 175 Maggiori Aziende Moda Italia con fatturato individuale superiore a 100 milioni. L’analisi contiene inoltre un Focus sul settore calzaturiero che analizza le 162 aziende produttive nazionali con ricavi  maggiori di 15 milioni e approfondisce l’andamento del comparto a livello mondiale.

Area Studi Mediobanca: "Moda: atteso un 2024 in rallentamento e in consolidamento"

Il report evidenzia che il contesto macroeconomico, i solidi fondamentali del comparto e la stabilizzazione della crescita dopo i brillanti risultati del post-pandemia lasciano presagire un futuro consolidamento del settore con ulteriori investimenti da parte delle multinazionali sulla supply chain e sul rafforzamento del presidio di filiera. Per il 2024 si attende un rallentamento della crescita che si fermerebbe al +4%, sostenuta anche dall’aumento dei listini implementati nei mesi scorsi e da un’accelerazione dei flussi  turistici. Nel 2022 le 80 maggiori multinazionali della moda hanno fatturato complessivamente €566mld (+11,7% sul 2021, superando del 21,6% i livelli pre-pandemici), di cui il 58% generato dai player europei  e il 33% dai nordamericani. Le aziende italiane riflettono la varietà e creatività imprenditoriale del  nostro Paese e sono quindi più numerose, ma di dimensione inferiore. Tra i 37 gruppi europei, l’Italia  con i suoi 12 big è il Paese con più protagonisti, ma è la Francia ad aggiudicarsi il primato per giro  d’affari (43% del totale europeo), davanti a Germania (11%), Spagna e Regno Unito (10% entrambi),  con l’Italia al 7%. I gruppi del lusso crescono di più di quelli mass-market (+19,3% vs +8,3% sul 2021),  anche rispetto ai livelli pre-Covid (+32,7% vs +13,8%). Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali si conferma LVMH (€79,2mld). Seguono, a distanza,  Nike (€48,0mld), la spagnola Inditex (€32,6mld) che controlla Zara, EssilorLuxottica (€24,5mld), la  tedesca Adidas (€22,5mld), l’altro player francese del lusso Kering (€20,4mld, di cui €10,5mld Gucci,  €3,3mld Yves Saint Laurent, €1,7mld Bottega Veneta), la svedese H&M (€20,1mld), il gruppo svizzero  Richemont (€20,0mld), quello giapponese Fast Retailing che controlla Uniqlo (€16.4mld) e Chanel (€16.1mld). Prima tra gli italiani si posiziona Prada (€4,2mld), al 33esimo posto in classifica, seguita da  Oniverse (44esima posizione), Moncler (50esima) e Giorgio Armani (54esima). Il giro d’affari  complessivo appare concentrato: le prime dieci multinazionali rappresentano oltre la metà dei ricavi  aggregati, con LVMH che da sola ne concentra il 14%.

La redditività supera anch’essa i livelli pre-crisi, con l’ebit margin aggregato al 15,1% (dal 13,1% del  2019), risultato dell’aggregazione di due cluster differenti: da una parte i colossi del lusso con l’ebit al 24,4%, inferiore solo alla redditività delle farmaceutiche (25,1%), e dall’altra i player mass-market con il 9,7%. Hermès si conferma di gran lunga al primo posto (ebit margin al 41,5%), davanti a Chanel (34,1%) e LVMH (31,5% al netto della divisione “selective retailing”). Seguono Moncler (29,8%), prima  italiana in classifica, e Kering (27,5%). Gli investimenti superano i livelli del 2019: +29,4% rispetto al 2021 e +24,8% rispetto al 2019. I gruppi  del lusso registrano un’intensità di investimento più che doppia rispetto a quelli orientati al mass market: 9,4% vs 4,5% il rapporto fra investimenti e ricavi. I big italiani si distinguono per il tasso di  investimento medio più elevato, pari a 13,5%, oltre il doppio della media del settore (6,4%), e  superiore a quello francese (9,9%). Il podio è tutto tricolore: Valentino (23,6%), OTB (20,2%), Prada (17,2%).  Anche gli acquisti di azioni proprie si sono intensificati superando i livelli pre-pandemici (+81,5% sul  2019) e raggiungendo il record nel 2022, con un’accelerazione per i gruppi europei rispetto a quelli  nordamericani (+135,4% vs 66,6%) a cui, però, è attribuibile il 68,7% degli acquisti complessivi. Nel 2022 i colossi della moda hanno distribuito 24,8 miliardi di dividendi, anche in questo caso record  del quadriennio, pari al +17,5% sul 2021 e al +15,4% sul 2019. 

Sul fronte patrimoniale, le multinazionali della moda godono di una struttura finanziaria più solida rispetto alla grande manifattura (debiti finanziari sul capitale netto al 67,1% vs 71,0%), con i gruppi  europei più capitalizzati di quelli nordamericani (57,0% vs 115,7%). Il 36% della forza lavoro delle multinazionali della moda ha meno di 30 anni, con quelle statunitensi  ben oltre la media (48%), mentre le europee sono allineate al dato globale: le tedesche e le  britanniche sono al di sopra (rispettivamente 43% e 41%), le italiane al di sotto (25%). Il ricorso al part time è più intenso nei gruppi statunitensi (51%) e tedeschi (41%), mentre i player nazionali registrano  il valore più basso (9%) dopo quelli cinesi (1%). Quanto alla varietà di genere, la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è pari al 66%, ma scende al 45% nei ruoli  direttivi e al 33% all’interno dei CdA. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (40%) rispetto a  quelli europei (34%). Ampiamente sopra la media si collocano i player francesi i cui board sono  composti per quasi la metà da donne; i gruppi tedeschi si fermano al 29% e quelli italiani al 31%. I big  transalpini registrano anche la più alta percentuale di donne nei ruoli dirigenziali (56%), seguiti da  italiani (49%) e statunitensi (47%). Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni  dieci consiglieri e il 22% nei ruoli dirigenziali. Le aziende cinesi fanno invece più ricorso alla forza lavoro  femminile: il 76% del totale dipendenti è donna. La forza lavoro nelle multinazionali della moda è impegnata in massima parte nella rete di vendita e  nella logistica (57%) cui seguono gli uffici amministrativi (24%) e gli stabilimenti (19%). Nei gruppi la  cui attività principale è la creazione, il design e la vendita del prodotto (c.d. "no-factory"), i processi  produttivi sono completamente delegati a fornitori esterni. Al contrario, nei gruppi che adottano una  strategia di produzione interna (in house), un dipendente su tre è addetto alla produzione.

Per quanto riguarda la supply chain, i fornitori dei maggiori player mondiali della moda sono  localizzati per il 62% in Asia, per il 29% in Europa e per il 7% nelle Americhe, con punte di oltre il 90% in  Asia per le calzature sportive. Il ricorso a fornitori asiatici è più marcato per i gruppi nordamericani  rispetto a quelli europei (73% vs 43%) che concentrano nel Vecchio Continente oltre la metà dei  propri fornitori (53%), adottando una strategia di prossimità alla ricerca di maggiore qualità. Con  riferimento alle multinazionali operative nell’alta gamma, è evidente la maggiore concentrazione  della produzione in Europa: il 77% dei loro fornitori è europeo, rispetto al 13% dei player di fascia più  economica. Solo il 19% dei fornitori degli operatori di alta gamma è asiatico, percentuale che sale  al 76% per i player che servono il mass market. Infine, un segnale inequivocabile dell’eccellenza del  Made in Italy: il 29% dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, quota che sale ai  due terzi per i player del lusso. L’Italia si configura quindi come il primo produttore di alta moda nel  mondo. Nel 2022 quasi due milioni e 250mila persone lavorano direttamente alle dipendenze degli 80  operatori mondiali della moda, oltre 48mila in più rispetto al 2019 (+2,2%), con i gruppi europei in  accelerazione (+8,5% sul 2019) e quelli nordamericani in ridimensionamento (-7,4%). Mediamente il  53% dell’organico delle multinazionali europee lavora nel Vecchio Continente, il 23% in Asia, il 15% in  Nord America, il 6% in America Latina e il 3% in Africa.

I dati di sistema desunti dai bilanci di sostenibilità confermano la crescente attenzione alle tematiche ESG da parte dei principali gruppi mondiali della moda che si impegnano con sempre più incisività per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell’ambiente. Diminuiscono le emissioni di CO2 (da 1.239 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2021 a 1.055 nel 2022; -15%), con le aziende   europee (-30%) che sovraperformano quelle nordamericane (-11%). Anche i rifiuti prodotti diminuiscono (da 2,8 tonnellate per un milione di fatturato nel 2021 a 2,5 nel 2022; -11%) e i big  europei (-19%) risultano più virtuosi di quelli nordamericani (+2%). La quota di rifiuti riciclati aumenta  (dal 70,1% nel 2021 al 73,9% nel 2022) ed è pari al 72,8% per le aziende europee (+3,5 p.p. sul 2021)  e all’84,9% per i gruppi statunitensi (+0,2 p.p. sul 2021). Si incrementa il ricorso alle fonti rinnovabili (dal  55,6% nel 2021 al 60,6% nel 2022), con i big europei ancora una volta più virtuosi di quelli  nordamericani (70,5% vs 50,0% nel 2022). In calo i consumi idrici del 18% (da 316 m3 di acqua  consumata per un milione di fatturato nel 2021 a 258 nel 2022); solo in questo caso risultano più  virtuosi i gruppi nordamericani (-19%) rispetto a quelli europei (-16%). 

Dopo un biennio brillante, i dati preconsuntivi 2023 indicano una crescita del giro d’affari aggregato  delle Maggiori Aziende Moda Italia del +6% sul 2022 che si accompagna a una maggiore  dispersione rispetto al passato a conferma della forte incertezza dello scenario. A trainare i ricavi  sono le vendite all’estero (+7%): più dinamico il mercato asiatico, positiva anche l’Europa grazie al  contributo dei turisti, in sofferenza, invece, il mercato nordamericano. Gli investimenti dovrebbero  attestarsi a un +17%.  Per il 2024 si prevede un’ulteriore, moderata crescita del giro d’affari del 3% che porterebbe i ricavi  dell’aggregato delle Maggiori Aziende Moda Italia a sfiorare i 94 miliardi, in un contesto di tassi di  interesse e tensioni inflazionistiche in riduzione che, combinati con la solidità finanziaria e l’alta qualità  dei prodotti e servizi offerti rappresenteranno nel 2024 un fattore di successo per sostenere la crescita  tramite investimenti organici (previsti in aumento da un terzo delle imprese) e attività di M&A. Le 175 maggiori aziende della moda con sede in Italia registrano un valore aggiunto pari all’1,5% del  Pil nazionale nel 2022. Spiccano l’abbigliamento, che determina il 40,6% dei ricavi aggregati, e le pelli, cuoio e calzature (30,4%). Le produzioni riferibili all’alta gamma cubano il 67,0% del totale dei  comparti abbigliamento, pelletteria e tessile. Si conferma importante la presenza di gruppi stranieri  nella moda italiana: 62 delle 175 aziende hanno una proprietà estera che controlla il 41,6% del  fatturato aggregato (il 23% è francese), a conferma dell’apprezzamento oltreconfine del Made in  Italy. L’investitore straniero predilige l’alta gamma: il 76,2% del fatturato aggregato delle aziende a  controllo estero è relativo alla fascia lusso (il 60% è francese).  La proiezione internazionale è una delle caratteristiche più rappresentative delle società  manifatturiere della moda: il 65% del fatturato complessivo proviene dall’estero, con in testa l’occhialeria (76,8%) e la pelletteria (75,2%). I produttori di alta gamma si collocano su livelli di export  più elevati rispetto a quelli di fascia più economica (75,1% vs 42,1%), dimostrando maggiore  capacità di presidiare i mercati esteri. La base produttiva delle aziende della moda è principalmente italiana: il 76% degli insediamenti  manifatturieri è ubicato in Italia, mentre il restante 24% è in Paesi stranieri (14% Europa, 4% Asia, 4%  Africa e 2% Americhe). I player dell’occhialeria, gioielleria e tessile sono più orientati verso una  strategia di delocalizzazione. Per le aziende di alta gamma, la concentrazione della produzione  nazionale è maggiore: l’89% della loro base produttiva è in Italia e solo l’11% è in Paesi stranieri (di  cui due terzi in Europa). Complessivamente si osserva una progressiva riconfigurazione del processo  di internazionalizzazione del tessuto produttivo italiano della moda secondo tendenze di nearshoring e, soprattutto, friendshoring. 

Applicando il sistema di rating proprietario sviluppato dalla collaborazione fra Mediobanca Research e Google per misurare il grado di maturità digitale delle aziende, le medie imprese della  moda mostrano una maggiore digitalizzazione rispetto alla media della manifattura italiana: il 30% (vs 39%) del campione analizzato risulta composto da imprese esordienti, in una fase ancora iniziale  del processo di digitalizzazione, e il 65% (vs 56%) del campione da imprese sperimentatrici, con una  visione digitale delineata, ma che potrebbero sfruttare meglio le opportunità offerte dalla  tecnologia. Solo il 5% è composto da aziende innovatrici, con una solida infrastruttura digitale,  processi organizzativi innovativi e una forza lavoro digitalmente qualificata.  Le 175 aziende considerate hanno sviluppato nel 2022 vendite pari a 85,9 miliardi di euro, in ripresa  del 19,1% sul 2021 e superiore del 20,4% ai livelli pre-crisi, con l’impiego di quasi 296mila dipendenti (+7,0% sul 2021 e +3,1% sul 2019). Nel 2022 il ritorno dell’inflazione ha colpito anche il comparto della  moda, seppur in modo meno incisivo rispetto al resto della manifattura italiana. La crescita delle  vendite rimane comunque premiante e ancora a doppia cifra anche considerando la relativa  inflazione: +12,9% sul 2021, con l’export al +13,3% e le vendite nazionali al +12,2%. I produttori di alta gamma recuperano con maggior forza rispetto a quelli mass-market, superando i  livelli del 2019 del 20,3%, mentre i player operativi nella fascia più economica si fermano a un +11,0%.  Le medie imprese rimbalzano più velocemente, segnando un fatturato superiore del 32,9% sul 2019,  a conferma della maggiore dinamicità e flessibilità di questa classe dimensionale, fiore all’occhiello  del sistema industriale italiano.

La redditività segna una dinamica crescente dall’11,8% di ebit margin del 2019, al 10,4% del 2021 e  al 12,2% del 2022, dopo l’impatto dirompente del 2020 con il 4,3%. Quindi, oltre ad aver conseguito  nel 2022 un importante sviluppo delle vendite in termini reali, il comparto mostra una buona capacità  di gestire gli effetti dell’inflazione, assorbendone l’impatto e riuscendo a segnare una significativa  progressione della redditività. Il comparto pelli, cuoio e calzature riporta ancora i margini più  soddisfacenti (18,3% nel 2022), seguito dall’occhialeria, pure a doppia cifra e sopra la media (16,5%).  I prodotti di alta qualità continuano a premiare la redditività, con l’alta gamma a chiudere il 2022 con un ebit margin del 16,4%, quasi il triplo dei valori delle produzioni mass market (6,1%). Il podio per  redditività vede Bulgari (43,4%) e Fendi (36,0%), entrambe appartenenti alla galassia LVMH, davanti  a Gingi (34,6%, il cui principale marchio è Elisabetta Franchi). In rialzo del 17,8% sul 2021 gli investimenti che superano del 26,5% i livelli pre-crisi (oltre un miliardo  in più sul 2019). Fra le aziende produttive, nel comparto della gioielleria la crescita è stata anche più  consistente (+66,1%).  Sul fronte patrimoniale, le aziende della moda rafforzano la propria struttura finanziaria (debiti  finanziari sul capitale netto al 52,0% nel 2022 dal 62,1% del 2019), con quelle di alta gamma che  segnano una leva inferiore a quella dei produttori mass-market (49,9% vs 63,7%) e l’occhialeria che  si distingue come il comparto più capitalizzato. La liquidità sale a livello aggregato dal 40,0% dei  debiti finanziari nel 2019 al 49,0% nel 2022.  La moda italiana è lontana dai riflettori della Borsa: solo il 18,4% del giro d’affari aggregato (15,8  miliardi di euro) è prodotto dalle dodici società quotate del panel. Le imprese quotate hanno un  fatturato medio di 1,3 miliardi, quasi il doppio di quelle non quotate (0,7 miliardi), una redditività  superiore (ebit margin al 14,6% vs 10,4%), così come la proiezione internazionale (75,0% di export vs  62,0%). A fine 2023 le società quotate raggiungono una capitalizzazione di 42,1 miliardi (+5,3% sul  2022), pari al 3,8% del valore dell’Euronext Milan (2,9% nel 2019), escludendo Ermenegildo Zegna e  Prada quotate all’estero. Al 31 dicembre 2023 il podio di Borsa è occupato da Moncler (€15,3mld),  Prada (€13,2mld) e Brunello Cucinelli (€6,0mld); al quarto posto si colloca Ermenegildo Zegna (€2,6mld), seguita da Salvatore Ferragamo (€2,1mld).

Passando al settore calzaturiero il focus al riguardo evidenzia che dopo un biennio di spinta a doppia cifra, i dati preconsuntivi 2023 indicano una crescita moderata  del giro d’affari del +2% sul 2022, trainata dal mercato interno, con l’export in ridimensionamento (- 2%), in buona parte per il rallentamento degli Stati Uniti; meglio le vendite in Cina, legate però soprattutto alle performance delle multinazionali del lusso, in un mercato non di facile approccio per  le aziende con marchio proprio. Il lieve incremento del fatturato nel 2023 appare come il risultato  della coesistenza di due segmenti della stessa industria con una visione di mercato profondamente  differente che conferma come la sfida dell’upgrade qualitativo sia la sola frontiera sulla quale le  nostre imprese possono conseguire risultati soddisfacenti nel medio-lungo termine: il segmento delle  calzature di alta gamma è atteso in rialzo del +6%, mentre per le referenze mass-market si stima una  contrazione del 6%.  Per il 2024 è atteso un adeguamento, quantificabile intorno al -1% del giro d’affari, con una  campagna di investimenti sostanzialmente allineata a quella dell’anno precedente.  Le 162 aziende produttive calzaturiere italiane (che rappresentano l’83% del totale nazionale quanto  a fatturato secondo dati Istat) hanno sviluppato nel 2022 vendite pari a 12 miliardi di euro, superando  i livelli pre-emergenziali del +16,8%, con l’impiego di quasi 54mila dipendenti (+1,9% sul 2021 e +3,7%  sul 2019). La crescita del fatturato nominale del +20,3% sul 2021 corrisponde a una crescita reale del  +13,4%, comunque a doppia cifra. Tenuto conto della rispettiva variazione dei prezzi alla produzione, le performance esportative hanno quasi raddoppiato quelle nazionali: +16,9% sul 2021 le prime e  +9,9% le seconde. Circa le singole specialità, sono cresciute più della media sui livelli pre-Covid le  imprese di componentistica (+39,7%), le calzature sportive (+34,2%) e quelle da donna (+17,2%). I  terzisti hanno incrementato il giro d’affari più dei produttori a marchio proprio (+21,8% vs +13,8% sul  2019), trainati dalla brillante performance dei grandi gruppi internazionali cui forniscono i propri  prodotti. Le medie imprese hanno accelerato (+47,0% sul 2019), rispetto al +6,9% delle medio-grandi  e al ridimensionamento delle piccole (-11,1%), confermando la migliore dinamicità e flessibilità di  questa classe dimensionale. Nel 2022 al primo posto per ricavi si colloca Salvatore Ferragamo (1,2mld) che precede Tod’s (1,0mld) e Lir-Geox (0,9mld). Seguono Tecnica Group (561mln) e Golden  Goose (501mln), quest’ultima prossima alla quotazione in Borsa.

La redditività della filiera produttiva della calzatura segna una dinamica crescente dal 7,1% di ebit  margin del 2019, all’8,0% del 2021 e all’8,7% del 2022, dopo l’impatto dirompente della pandemia  nel 2020 (1,4%). A livello dimensionale performano meglio le medie imprese (8,8%) rispetto alle grandi  (8,7%) e soprattutto alle piccole (5,4%) che risultano quelle più in sofferenza, con margini ancora  inferiori ai livelli pre-Covid. Il podio per redditività vede Tailor Made International (29,7%), terzista di  calzature da uomo di alta gamma, Autry International (27,9%) e Fin Reporter (24,6%, principale  società operativa U-Power, calzature antinfortunistiche). La filiera della calzatura ha una forte connotazione distrettuale che riguarda 129 società  rappresentative dell’80,8% del fatturato totale con presenze significative nelle province di Treviso,  Firenze e Fermo.  In generale, prevalgono le imprese a controllo italiano che rappresentano l’83,6% delle vendite  complessive, mentre il contributo degli operatori a controllo estero si ferma al 16,4% del totale (di  cui il 7,4% francese, in primis LVMH, Kering e Hermès) e coinvolge 22 delle 162 aziende. La presenza  estera è di assoluto rilievo nel segmento di alta gamma, a conferma del particolare apprezzamento  degli stranieri, in primis francesi, per l’elevata qualità delle scarpe Made in Italy: l’88,6% del totale  estero fa infatti capo ad aziende che rientrano nella fascia high-end.  La proiezione internazionale è una delle caratteristiche più rappresentative dell’industria calzaturiera: il 64,6% del fatturato complessivo proviene dall’estero, con in testa le calzature sportive  (82,7%). I principali mercati di sbocco delle aziende italiane sono l’Europa, che accoglie quasi la  metà delle vendite oltreconfine (45%), l’Asia trainata dalla Cina (30%) e le Americhe sostenute dagli  Stati Uniti (25%). La base produttiva delle aziende esaminate è principalmente italiana: il 73% della base produttiva è  ubicato in Italia, mentre il restante 27% è in Paesi stranieri: 22,0% Europa (in massima parte dell’Est),  2,5% Africa, 1,8% Asia e 0,7% Americhe. Per le aziende dell’alta gamma, la concentrazione della  produzione nazionale sale all’89%. 

Il giro d’affari dell’industria calzaturiera mondiale è quantificabile in 318 miliardi di dollari in base ai  prezzi al dettaglio nel 2022, con l’attesa di toccare i 330 miliardi di euro nel 2023 e con previsione di  crescita nel più lungo periodo nell’ordine del 4% medio annuo, per un valore atteso stimato di circa  375 miliardi nel 2026. Nel 2022 il prezzo medio di un paio di calzature a livello globale è valutabile in  circa 13 dollari, per un consumo pro-capite annuo di 3 paia differenziato da un paio per persona in  Africa alle cinque paia in Europa e alle sei in Nord America. La produzione mondiale di calzature ha raggiunto i 23,9 miliardi di paia nel 2022 (+7,6% sul 2021),  sfiorando il massimo storico di 24,3 miliardi del 2019. Il continente asiatico s’impone quale maggiore  produttore: conta per quasi nove delle dieci paia di scarpe prodotte nel mondo (87,4% del totale).  Seguono, molto distanti, l’America Latina con il 4,8%, l’Africa con il 3,7%, l’Europa con il 2,7%, e il Nord  America con il restante 1,4%. La Cina è al primo posto: conta per oltre la metà della produzione  mondiale (54,6%), davanti ad altri tre Paesi asiatici: India (10,9%), Vietnam (6,3%) e Indonesia (4,3%).  L’Italia vanta un posizionamento di primo piano: dodicesimo produttore mondiale e primo  dell'Unione Europea, con un terzo delle calzature comunitarie prodotte (32,6%, pari a 162 milioni di  paia), davanti a Portogallo (16,9%) e Spagna (16,7%).  Di primo piano il ruolo del nostro Paese anche nella mappa esportativa globale; l’Italia è il terzo  esportatore mondiale a valore, con il 7,6% delle esportazioni complessive, preceduta dalla Cina  (32,9%) e dal Vietnam (17,1%), e l’ottavo a volume. L’Italia è leader tra i produttori di calzature di  alta gamma: il prezzo medio delle esportazioni italiane (USD61,66/paio) è di gran lunga il più elevato  al mondo, davanti a quello della Francia (USD39,37/paio) e superiore di oltre dieci volte quello  cinese (USD6,19/paio).

L’Italia mostra un saldo commerciale positivo per 5,7 miliardi di dollari nel 2022, primo Paese europeo  dietro solo al trio asiatico (Cina, Vietnam e Indonesia). Una peculiarità italiana che ne avalla  l’accreditamento nella fascia alta del mercato riviene dall’elevato differenziale tra prezzo medio  all’esportazione e quello all’importazione: l’attività di finitura sui prodotti finiti o semifiniti e  l’esportazione delle referenze di alta gamma si traduce in prezzi all’export 3,1 volte superiori a quelli  medi all’import, un multiplo che sopravanza ampiamente quello francese (2,1 volte) e che non ha  riscontro in nessun altro Paese europeo (0,2 quello cinese). L’Italia si segnala inoltre per avere una  produzione interna incapiente rispetto ai consumi, fattore che legittima un importante flusso  importativo che tuttavia non preclude la coesistenza di un'ampia attività esportatrice a valori medi  nettamente superiori a quelli dei restanti produttori: la parte più pregiata della produzione nazionale  soddisfa la forte domanda dei Paesi esteri, mentre il gap di consumi interni viene alimentato da beni  importati con prezzi unitari inferiori.  I dati elaborati per Assocalzaturifici dal Centro Studi di Confindustria Moda confermano come,  esaurito il rimbalzo post Covid, nel 2023 il rallentamento, innescatosi già in primavera, si è reso ancor  più evidente nella seconda parte dell’anno, per l’incertezza del contesto geopolitico internazionale  e per la debolezza dell’economia in diverse importanti aree del mondo.

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