Fabio Ridolfi, finalmente libero. Le ultime parole: “spero che il mio gesto serva”
- di: Barbara Leone
Il dolore è come t’afferra, diceva mio nonno. Per dire che una cosa la puoi comprendere davvero fino in fondo solo quando la vivi in prima persona. Una frase che m’è rimbombata dentro in questi giorni pensando a Fabio Ridolfi, il 46enne marchigiano che si è spento ieri dopo aver avviato la sedazione profonda con conseguente sospensione della nutrizione e idratazione artificiali. La sua storia la conoscono tutti. Per diciotto anni Fabio, che di anni ne aveva quarantasei, ha trascorso le sue giornate steso sul letto della sua camera. Fermo, immobile, completamente inerte.
Da di-cio-tto anni! Gli unici movimenti che riusciva a fare erano quelli degli occhi e delle palpebre, che puntava e sbatteva in direzione di uno schermo fissato davanti al suo viso grazie al quale digitava, tramite un puntatore oculare, lettera per lettera le parole che non riusciva a pronunciare a voce. Ma ve l’immaginate? Io no. Ci provo, ce la metto tutta per immedesimarmi in lui. Ma la verità è che non ne ho lontanamente la più pallida idea di che cosa voglia dire vivere un inferno simile. Roba che la gente comune scalpita se deve stare qualche giorno chiusa in casa per il covid, e dico la prima cosa che mi viene in mente. Lui ha resistito in quelle condizioni per ben diciotto, lunghissimi, interminabili anni.
Che equivalgono a 6570 giorni, 157680 ore e 9467280 minuti. No, non abbiamo proprio idea. E’ difficile anche solo immaginarlo. Nel 2020 tramite suo fratello Andrea aveva contattato Mina Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, da sempre in prima linea per la battaglia sul fine vita. Con lei Ridolfi aveva iniziato il percorso legale per l’accesso al suicidio assistito, culminato nel parere positivo del Comitato etico della Regione Marche. Poi la beffa, l’ennesima beffa della vita. Anzi no, dell’umana, spietatissima indifferenza e italianissima ipocrisia. Perché nonostante gli fosse stato riconosciuto il diritto a terminare la propria vita senza soffrire il parere è rimasto chiuso in un cassetto per 40 giorni. Non solo, era pure incompleto, perché non specificava la modalità di attuazione e il farmaco da usare per porre fine alle sue sofferenze. In pratica non gli è stato indicato il farmaco idoneo né il dosaggio. Un modo per non avvallare la sua scelta con una strategia ipocrita, confusa e indiretta, ma che purtroppo è bastata per fermare la battaglia in cui Fabio credeva di più. Un’ingiustizia crudele vergognosa. Perché nessuno aveva diritto di recargli ulteriore sofferenza. Questo intoppo burocratico, chiamiamolo così, a Fabio è costato altri mesi d’inferno. E chissà quanto ancora avrebbe dovuto aspettare. Così ha scelto un’altra morte, più articolata e sicuramente dolorosa per lui e per la sua famiglia. E questo in un Paese che si proclama civile è veramente insopportabile. Il fatto che manchi una normativa chiara e certa al riguardo ci fa tremare i polsi, perché lasciare morire con dignità un essere umano è un gesto d’amore. Lo si fa con i nostri amici animali, perché non regolamentare una volta per tutte e seriamente l’eutanasia anche per noi umani? Meritava una fine più dignitosa Fabio Ridolfi. E noi meritiamo un Paese meno crudele e ipocrita perché, come si dice, oggi a me domani a te. E’ tempo di affrontare seriamente l’argomento fine vita, senza sofismi e prese in giro. Prima di farsi sedare Fabio, col suo coraggio immenso, ha detto: “Non ho paura di morire, anzi non vedo l’ora, e spero che il mio gesto serva”. Più bel testamento non ci poteva lasciare. Che la terra ti sia lieve Fabio, nonostante ti abbia negato ciò che era giusto.