Enea, una sconfitta per tutti

- di: Barbara Bizzarri
 
La storia di Enea è una sconfitta per la società e per tutti. Lui è il bimbo che, la mattina di Pasqua, è stato affidato da una madre amorevole, ma disperata, alla Culla per la Vita dell’Ospedale Mangiagalli di Milano, e si presenta al mondo con una lettera straziante: che società è diventata quella che costringe una madre a rinunciare a suo figlio? Pensare che una donna sia costretta a separarsi dal suo bambino e sopportare un dolore così grande, così atroce per una persona sola va oltre l’umana comprensione, in particolare se questa scelta è dettata da circostanze esterne e non da una volontà propria. “Sono nato in ospedale per stare insieme il più possibile”, scrive la mamma, a nome del bimbo, nel suo messaggio commovente, vittima di un disagio non sentito, non visto da nessuno, costretta a ritagliarsi in ospedale poche ore da trascorrere con la sua creatura, che già sa di non rivedere più. Corre il parallelismo con l’Enea che tutti conosciamo, nato da una dea, in fuga da una città distrutta, che supplica la madre, Venere, di rendersi visibile ai suoi occhi, almeno una volta, e lei lo accontenta presentandosi nelle vesti di una giovane cacciatrice, ma il suo incedere la tradisce, e il suo passo ne rivela la divinità. Tutti speriamo che la madre che ha scelto per il figlio la vita e un nome tanto benevolo ritorni per sconfiggere la barbarie di una separazione contro natura, di un dolore che non lascia scampo.

Enea, abbandonato nella culla del Policlinico di Milano

Dopo l’appello del professor Fabio Mosca, direttore del Reparto di Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico di Milano, che ha invitato la mamma a ripensarci, garantendo aiuto e anonimato, addirittura anche il conduttore Ezio Greggio, forte della sua popolarità, nel tentativo di raggiungere la madre di Enea, le ha chiesto di tornare: “Prendi il tuo bambino che merita una mamma vera, non una mamma che poi dovrà occuparsene ma non è la mamma vera. Ti aiuteremo in tanti”. La speranza è che sia così, e che questa donna costretta a un gesto disumano possa riannodare il filo che la lega ad Enea e portarlo a casa con sé. Ma urge una profonda revisione della nostra società inconsistente, in cui si parla del nulla cosmico facendo però grandi proclami e che ignora i drammi e le scelte laceranti che tanti, troppi, sono costretti ad affrontare per sopravvivere. Una società che si preoccupa del divorzio fasullo e dei viaggi a Dubai dei Ferragnez, delle firme sui vestiti, dei balletti in tv e delle idiozie imperanti e intanto abbandona gli ultimi, i bisognosi, voltando lo sguardo dall’altra parte, è una società in decomposizione. Spesso chi ha più necessità di aiuto, e non necessariamente si tratta sempre di aiuto economico, non parla, si vergogna della sua condizione, teme la “brutta figura”, questa intraducibile espressione italica che hanno inculcato per indurre a non infastidire, per dare l’illusione che vada tutto bene, senza disturbare, senza essere di intralcio. Invece no: vivere con dignità è un diritto, tenere il proprio figlio è un diritto, e se non è possibile la responsabilità non è della vittima, come ci hanno abituati a pensare con un escamotage fin troppo facile. Il mondo da cambiare è quello che costringe una madre a rinunciare a suo figlio, in qualsiasi condizioni si trovi, qualunque sia la causa, e non la pallina di plastica ecologica intrisa di ipocrisia, sterilizzata dalla propaganda, infettata dall’artificialità che tentano di spacciare per pubblicizzare le loro merci inutili.
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