30 anni fa 'Mani pulite' sconvolse la coscienza del Paese
- di: Diego Minuti
Accade ciclicamente che un popolo perda traumaticamente la sua ingenuità. Capita che, all'improvviso, cose che erano conosciute solo da un ristretto numero di persone divengano palesi e tutti si accorgano che, davanti ai loro occhi, senza che se ne accorgessero, c'erano indizi che li avrebbero dovuto mettere sull'avviso. È il modo peggiore per rendersi conto che una cosa è la vita per come ce la si immagina e un'altra è la realtà.
Quindi, quando trent'anni fa, in un elegante appartamento della Milano da bere, un ladruncolo, seppure in doppio petto e cravatta firmata, fu pescato con le mani nella marmellata (un pacco di banconote che dovevano essere da tutt'altra parte), l'Italia ebbe contezza che il sistema politico viveva grazie ad un sistema dove le influenze politiche si mischiavano agli interessi privati. Fu il momento in cui brutalmente il Paese si accorse che la mazzetta era una cosa codificata, percentualmente fissata ancor prima che due soggetti (il politico e l'imprenditore, con il naturale corollario di funzionari che aspettavano solo di essere corrotti) si incontrassero per assegnare appalti che altrimenti, con un sistema imperniato sull'onestà, sarebbero finiti altrove e, soprattutto, lecitamente. Più che un pantano, fatto di fango e avidità, quello che si scoprì era un gigantesco imbuto dove arrivavano soldi da tutti i lati per alimentare la politica.
Che poi ci fosse chi chiedeva soldi per il partito e chi, invece, lo faceva solo per sé stesso, senza che questo determinasse una deflagrante collisione tra i due interessi, è un fatto che non era così scandaloso come può sembrare alla luce della sensibilità di oggi. Trent'anni fa, con l'esplodere di ''Mani pulite'', cominciò una operazione di pulizia (che, ad onore del vero, non coinvolse tutti, con alcuni partiti sfiorati, ma a livello di semplici ascari, non di condottieri) che avrebbe dovuto ridare alla Repubblica la verginità perduta, ma che non ha raggiunto il suo obiettivo perché la corruzione, la bramosia del denaro e del potere s'acqueta, si nasconde, va in letargo, ma non muore mai.
Sono passati 30 anni dallo scandalo di Mani Pulite
La conseguenza dello scatenarsi dell'inchiesta della procura di Milano (che, come un grande fiume, ne raccolse di più piccole, ma anche si frammentò, vista la vastità del fenomeno) fu un moto di rivolta nazionale, in cui ebbero gioco facile coloro che, esclusi dal potere vero, cercavano di scalzare quelli che occupavano le poltrone cui loro ambivano, anche se, ottenuto l'obiettivo, diventavano essi stessi esposti a seduzioni, tentazioni e, quindi, indagini. Fu allora che la magistratura - non tutta - si fece protagonista della lotta politica perché ogni suo atto (dai clamorosi arresti alle semplici informazioni di garanzia, che arrivavano sulle scrivanie dei giornalisti prima che ai destinatari) divenne parte di una gigantesca partita che aveva come posta il potere, quello vero. Da ''Mani pulite'' in avanti i magistrati divennero, a seconda dei casi, regina o semplici pedoni, spianando la strada ad un incompiuto processo di purificazione dello Stato.
Un processo che è fallito nel momento in cui, tirate le reti in barca, il pescato era essenzialmente costituito da personaggi di secondo piano, perché i pesci grossi restavano sempre lontani. Ad eccezione di uno, del più grosso, Bettino Craxi, che ebbe il coraggio di dire in parlamento che lui era uno e non il solo, che il finanziamento dei partiti attraverso le tangenti era un sistema al quale nessuno si poteva sottrarre perché la politica ha i suoi costi. Un ragionamento estremo, che colpì tutti (anche quelli che lo definirono farneticante) perché aveva una forte componente di verità.
Come le tricoteuses, le popolane parigine che ai piedi della ghigliottina sferruzzavano tra una decapitazione e l'altra, gli italiani, al levare del sole, andavano a comprare i quotidiani, a sentire la radio o vedere i tg per sapere chi fosse rimasto impigliato nella rete dei pm durante la notte. Una frenesia collettiva alla quale nessuno si seppe sottrarre, a cominciare dai giornalisti che, per rispondere all'avidità della gente, bivaccavano nottetempo, davanti alle case degli arrestati prossimi futuri. L'isteria raggiunse livelli inspiegabili anche per persone assennate che, all'improvviso, si scoprirono giustizialiste emettendo condanne ben prima che i processi arrivassero in aula. A distanza di tre decenni quel clima, per fortuna di tutti, a cominciare dei nostri giovani, è un ricordo sbiadito, ravvivato da qualche trasmissione televisiva, magari da telefilm o talkshow, quasi che si potesse emettere giudizi quando ancora molto è rimasto da chiarire.
Come, ad esempio, sia stato possibile usare sino all'estremo gli strumenti in possesso dei pubblici ministeri e che oggi fanno rabbrividire. Il ricorso alla carcerazione preventiva, da ratio per evitare - come da modello oggi accettato - la reiterazione del delitto, l'inquinamento delle prove o il pericolo di fuga, divenne un opprimente strumento di pressione psicologica, che qualcuno pagò pesantemente anche dopo essere uscito di cella, non accettando la limitazione della libertà quando ancora le sue responsabilità non erano state accertate. Fu un quasi un esercizio preventivo della condanna anche in assenza di una sentenza. In molti crollarono, confessando tutto; altri non lo fecero; altri ancora, per evitare l'onta del carcere, la fecero finita: tutti comparse di un film il cui sceneggiatore resta ancora nell'ombra.