Zingaretti si dimette: "Mi vergogno che nel Pd si parli solo di poltrone"
- di: Diego Minuti
Un tempo di sarebbe definito un rigurgito d'orgoglio, ma oggi l'annuncio dato via Facebook da Nicola Zingaretti di essersi dimesso da segretario del Pd suona come una sconfitta, per lui, ed una vittoria per chi da tempo lo stava logorando, dall'interno, per spianargli la strada verso l'uscita.
Le parole che ha usato sono comunque forti e talmente inequivocabili che per essere cancellate (a dimettersi in Italia c'è sempre tempo) dovrebbero raccogliere un coro unanime di maggiorenti del Pd che lo preghino di recedere dalla sua determinazione.
Ma il margine per comporre la spaccatura tra Zingaretti ed i suoi nemici interni (se per nemici intendiamo coloro che stanno conducendo una guerra di posizione per acquistare potere e prestigio nella geografia della prossima nomenklatura del partito) oggi appare molto esiguo. Il prossimo passo del segretario dimissionario dovrebbe, a questo punto, stanare i frondisti, facendone i nomi e denunciandone i perniciosi comportamenti. Ma, se l'esperienza vale qualcosa, questa denuncia difficilmente arriverà.
"Lo stillicidio non finisce" - ha scritto Zingaretti su Facebook - "Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c'è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni". "Visto che il bersaglio sono io, per amore dell'Italia e del partito, non mi resta - ha aggiunto - che fare l'ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla presidente del partito per dimettermi formalmente. L'assemblea nazionale farà le scelte più opportune e utili".
Ma la decisione di Zingaretti non ricade solo sulla sua persona o sul Partito democratico, perché il segretario dimissionario era anche uno dei main sponsor del governo e, soprattutto, dell'asse strategico con i Cinque Stelle che, almeno in quelli che erano i suoi progetti, dovrebbe portare ad alleanze vere nelle elezioni regionali e dei Comuni più importanti, a cominciare da Roma e Napoli, dove la dialettica politica indossa già i panni della guerriglia.
La mossa di Zingaretti (lo ripetiamo, in politica un annuncio non sempre anticipa una ufficializzazione) è arrivata all'improvviso, ma certo non completamente inaspettata perché il terreno di confronto in seno al Pd è ormai costellato di beghe e tentativi di colpi di mano, tanto che sembra di assistere ad un gioco di ruolo che non all'esercizio della politica vera. Se alle questioni para-politiche si aggiungono i malumori e l'animo malmostoso di chi ambiva ad un posto in seno al governo e non ce l'ha fatta, il quadro generale è da fare cadere le braccia.
E nulla sposta il giudizio sullo stato del Pd la corsa, già iniziata, agli inviti a recedere, a ritirare le dimissioni perché il partito è con lui. Forse Nicola Zingaretti non è stato il migliore segretario che il Pd poteva scegliere per uscire dalla palude in cui era piombato, ma almeno ci ha messo la faccia e, su di essa, ha preso molte sberle.
Alcune mosse - come l'abbraccio con i grillini, che a molti è sembrato foriero di sventure - forse sono state avventate, contribuendo a fare perdere al Pd quell'aura di "sinistra" che molti rivendicano. Ma non ha mai cercato di imporre un modello di partito personale, come altri prima di lui avevano fatto. Ora la questione da politica rischia di diventare personale perché ben difficilmente chi ha alimentato le divisioni interne vorrà recedere, in una resa di conti che - ci permetta Zingaretti di dissentire dalla sua analisi - non è solo per le poltrone, ma per quello che si vuole per il Pd del futuro, le sue alleanze, le sue posizioni, i suoi rifiuti.