Willy: serve una riflessione sui processi mediatici fatti prima che in aula

- di: Diego Minuti
 
Marco e Gabriele Bianchi colpevoli e condannati all'ergastolo, per l'uccisione a calci e pugni di Willy Monteiro Duarte: questa la risposta dello Stato ad un atto di spaventosa brutalità, perché immotivata, perché incomprensibile, se non la si inquadra in una realtà quotidiana fatta di violenza, fine a sé stessa o mirata a ribadire i confini di un territorio criminale.
Un processo che ha avuto intorno a sé una attenzione spasmodica, anche perché (quasi) tutto il Paese ha voluto essere accanto alla famiglia della giovanissima vittima, riconoscendone la dignità con cui ha affrontato una prova durissima. E anche le poche parole pronunciate dai genitori, dopo avere sentito il verdetto, sono state improntate a compostezza, sottolineando che la sentenza - giusta - non può certo colmare lo spaventoso vuoto lasciato dalla morte di Willy.

La condanna agli assassini di Willy Monteiro Duarte spinge a una riflessione sulla gestione dei processi mediatici

Sin qui, sia pure in modo sintetico, la cronaca dell'esito del processo, per il quale il difensore dei due imputati principali, Massimiliano Pica, ha parlato di una enorme pressione mediatica che, in qualche modo, ne aveva già segnato l'epilogo, nonostante la mancanza, a suo avviso, di evidenze.
Una affermazione, quella sulla sarabanda mediatica che si è creata intorno al processo, che, in qualche modo, è fondata perché, al di là delle responsabilità di Gabriele e Marco Bianchi, il giudizio della gente era stato già emesso ben prima dell'inizio delle udienze, ponendo, ancora una volta, interrogativi sulle dinamiche della giustizia, quella ufficiale e quella dei media.

Se il processo ha dimostrato, senza nemmeno l'ombra del dubbio, che i due fratelli hanno ucciso Willy, meritando la condanna, loro e dei due amici che li hanno fiancheggiati (Francesco Belleggia e Marco Piancarelli), bisogna anche ammettere che sui media la sentenza era stata già emessa, ben prima che si conoscessero le linee che la difesa dei due avrebbe sostenuto.
Non vogliamo prendere le parti degli imputati perché sarebbe razionalmente impossibile farlo, ma il modo con il quale l'opinione pubblica è stata ''accompagnata'' nei mesi precedenti il processo e nel corso delle udienze non è che lasciasse spazio a perplessità o incertezze. Fermiamoci un attimo a riflettere su come, ben prima che gli imputati parlassero in aula per discolparsi, i due fratelli sono stati descritti e sulla la reiterazione, quasi ossessiva, della pubblicazione delle fotografie.

Sempre le stesse foto, che li ritraevano in pose aggressive (quelle tradizionali dei combattenti delle Mma) o da sbruffoni, con abiti che a Roma definirebbero da ''coatti'', tanto per andare sul leggero. Tacendo del fatto che, nella loro descrizione, molti giornali si sono soffermati sui tanti tatuaggi, quasi che questo fosse un elemento incriminante o che ne definiva la natura violenta.

Riproponendo i media, ad ogni occasione, l'immagine da fanfaroni, e certamente violenti, di Marco e Gabriele Bianchi, l'opinione pubblica è stata portata per mano verso un giudizio di scontata colpevolezza, perché i due fratelli ''non potevano essere innocenti''. Perché due giovani di cui si vedevano le stesse immagini, lo stesso ghigno, la stessa palese sfrontatezza, avevano già impressa sulla fronte e non sul petto - come la Hester descritta da Nathaniel Hawthorne - la 'lettera scarlatta' dell'infamia prima ancora della sentenza.

Qui, ripetiamo, non si sta affermando che il procedimento non sia stato condotto con equilibrio o correttezza (non facciamo il processo ai giudici o alla procura), ma solo che il verdetto della gente era stato emesso ben prima della sentenza, perché altrimenti non poteva essere.
I giudici dovrebbero potersi estraniare da quello che esce dallo stretto perimetro del processo, ma sappiamo bene che così non è e quando il difensore dei fratelli Bianchi parla di un condizionamento mediatico dice cosa che tutti sanno, anche se in pochi lo ammetteranno mai.
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