Retribuzioni reali ancora giù dell’8,8% sul 2021, quasi 6.400 euro di potere d’acquisto svaniti e un mercato del lavoro dominato dagli over 50.
L’Italia lavora di più, guadagna meno e invecchia sul posto di lavoro.
Un’emergenza salariale ormai strutturale
L’Italia entra nel 2026 con una certezza: l’emergenza salariale non è un incidente di percorso, ma una condizione stabile.
Secondo le ultime proiezioni Istat sulle prospettive dell’economia, a settembre 2025 i salari reali risultavano ancora
inferiori di 8,8 punti rispetto a gennaio 2021, nonostante il rientro dell’inflazione e gli aumenti retributivi nominali.
Il 2025 dovrebbe chiudere con una crescita delle retribuzioni lorde pro capite intorno al 2,9%, a fronte di un’inflazione acquisita vicina
all’1,6%. Sulla carta è un piccolo recupero, ma la voragine aperta tra il 2022 e il 2023 resta ampia:
l’erosione del potere d’acquisto accumulata negli anni dell’inflazione alta non è stata affatto riassorbita.
Nel frattempo, la fotografia del mercato del lavoro è solo apparentemente rassicurante: l’occupazione, misurata in unità di lavoro equivalenti a tempo pieno,
cresce nel 2025 di circa 1,3%, più del doppio del Pil fermo allo 0,5%. Il paradosso è netto:
più lavoro prodotto, ma retribuzioni che non tengono il passo del costo della vita.
Quanti soldi sono spariti: il conto da 6.400 euro
A trasformare i punti percentuali in soldi veri ci pensa il nuovo Rapporto della
Fondazione Di Vittorio, centro studi della Cgil, che quantifica con precisione il danno subito
dalle buste paga negli anni dell’impennata dei prezzi.
Tra il 2021 e il 2024:
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i lavoratori dipendenti del settore privato hanno perso complessivamente quasi
6.400 euro lordi di potere d’acquisto;
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nel settore pubblico il buco stimato è intorno ai 5.700 euro;
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anche considerando sgravi fiscali e contributivi, la perdita media resta superiore ai 5.500 euro a testa.
Non è un aggiustamento temporaneo: è una redistribuzione silenziosa di reddito a sfavore del lavoro dipendente.
Mentre la fiammata inflattiva si spegne, i salari non recuperano il terreno perso, e la ferita diventa cronica.
In parallelo, i dati raccolti da diversi studi confermano che le retribuzioni italiane erano già
deboli in termini reali prima della pandemia, con una stagnazione lunga oltre un decennio.
Le ultime analisi sul periodo 2007–2024 indicano come il valore reale delle retribuzioni sia ancora inferiore
ai livelli pre-crisi finanziaria, aggravando la percezione di un Paese in cui lavorare non basta più per stare al passo.
Famiglie più povere, ricchezza concentrata e debiti in salita
La compressione dei salari si innesta su un altro fronte critico: la ricchezza delle famiglie.
Il 59° Rapporto Censis descrive un’Italia in cui, nell’arco di 15 anni,
il patrimonio delle famiglie ha registrato una flessione reale intorno all’8–9%,
con una forte concentrazione della ricchezza in poche mani.
Una quota rilevante del patrimonio complessivo è detenuta da una minoranza ristretta di nuclei ad alto reddito,
mentre il ceto medio vede ridursi progressivamente margini, risparmio e capacità di investimento.
Allo stesso tempo, il debito delle famiglie cresce, spesso per far fronte ai rincari di mutui, affitti e spese essenziali.
Così l’effetto combinato è devastante: stipendi che valgono meno,
ricchezza diffusa in calo e un sistema di welfare meno generoso rispetto al passato.
L’equazione porta a un risultato semplice e duro: più fragilità sociale.
Il lavoro che invecchia: l’84,5% dei nuovi occupati è over 50
Il Rapporto Censis non si ferma ai salari. La fotografia del mercato del lavoro è ancora più spiazzante:
l’aumento di 833.000 occupati registrato nel biennio 2023–2024
è dovuto in larghissima parte alle persone con 50 anni e oltre.
Si parla di 704.000 nuovi occupati maturi, pari all’84,5% della nuova occupazione.
È la conferma di una tendenza netta: il mercato del lavoro italiano è sempre più senile.
Crescono gli occupati anziani, mentre l’occupazione giovanile fatica e aumenta il numero degli inattivi
tra i più giovani, scoraggiati o bloccati in percorsi formativi lunghi e poco collegati alla domanda di competenze.
Le cause sono chiare:
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Stretta sulle pensioni: l’accesso al pensionamento anticipato è più difficile,
le finestre si allungano, e chi ha 60 o 65 anni resta al lavoro per necessità o per vincolo normativo.
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Transizione demografica: i nati negli anni Settanta entrano in massa nell’età più matura,
mentre le nuove generazioni sono numericamente più ridotte.
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Lavoro a basso costo: una parte degli over 50 accetta retribuzioni modeste pur di restare agganciata al mercato,
rendendo il lavoro relativamente conveniente per le imprese.
L’aumento dell’occupazione, dunque, non racconta una storia di benessere diffuso, ma la necessità di lavorare più a lungo
per compensare redditi insufficienti e pensioni future meno generose.
Disoccupazione in lieve calo, ma non basta
Le stesse previsioni Istat indicano un tasso di disoccupazione in discesa:
dal 6,5% circa nel 2024 al 6,2% nel 2025, con un’ulteriore limatura verso il
6,1% nel 2026.
Numeri che, presi isolatamente, potrebbero far pensare a una normalizzazione. Ma inseriti nel quadro generale
raccontano altro: un Paese che lavora di più, spesso in occupazioni a bassa remunerazione e con carriere spezzate.
L’occupazione cresce, ma la qualità del lavoro e delle retribuzioni resta il vero punto debole.
La denuncia dei sindacati: poveri pur lavorando
Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, parla senza giri di parole di
«emergenza salariale».
Il ragionamento è netto: se un numero crescente di persone resta povero pur avendo un lavoro a tempo pieno,
significa che il sistema di distribuzione della ricchezza «non funziona» e contraddice lo spirito della Costituzione.
Per Landini, aumentare i salari non è solo una questione di tutela dei lavoratori, ma anche una leva di politica industriale:
più reddito disponibile alimenta consumi, investimenti e crescita. Il sindacato punta il dito sul modello italiano, fondato su:
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forte centralità dei contratti nazionali, spesso rinnovati in ritardo;
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una contrattazione di secondo livello (aziendale o territoriale) molto disomogenea,
più diffusa nei grandi gruppi che nelle piccole imprese;
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assenza di un salario minimo legale, rimandando tutta la difesa dei minimi tabellari alla contrattazione collettiva.
La richiesta è chiara: sostegno legislativo al salario e alla contrattazione, per evitare che milioni di lavoratori
restino schiacciati tra inflazione pregressa, buste paga leggere e carriere discontinue.
Perché i salari italiani non ce la fanno a correre
L’incrocio tra dati Istat, Cgil, Censis e altre analisi economiche mette in fila alcune cause strutturali
che spiegano la cronica debolezza salariale italiana:
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Bassa produttività: da oltre vent’anni il valore aggiunto per ora lavorata cresce poco o nulla,
specialmente nei servizi e nelle piccole imprese. Con una produttività stagnante,
molti datori di lavoro puntano su salari bassi anziché su innovazione e formazione.
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Frammentazione contrattuale: una miriade di contratti collettivi, non sempre firmati dalle organizzazioni più rappresentative,
crea zone grigie di sotto-salario e dumping interno.
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Pressione fiscale sul lavoro: nonostante gli interventi di decontribuzione degli ultimi anni,
il cuneo fiscale resta elevato, comprimendo la retribuzione netta in busta.
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Dualismo generazionale e territoriale: i lavoratori giovani e quelli del Mezzogiorno
entrano spesso con salari più bassi, contratti temporanei e percorsi meno protetti.
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Invecchiamento demografico: una forza lavoro mediamente più anziana e numericamente ridotta
rispetto alle generazioni precedenti rende più difficile sostenere, a parità di Pil,
salari alti, pensioni dignitose e welfare generoso.
Il risultato è un circolo vizioso: salari bassi, consumi frenati, investimenti limitati, produttività ferma.
Una spirale che non si spezza con piccoli ritocchi nominali alle retribuzioni.
Le previsioni fino al 2026: piccolo recupero, grande ritardo
Guardando avanti, le proiezioni Istat indicano per il 2026 una crescita delle retribuzioni pro capite
intorno al 2,4%, un ritmo leggermente inferiore a quello del 2025.
Se l’inflazione resterà moderata, una parte del potere d’acquisto potrebbe essere recuperata,
ma non abbastanza per colmare il buco aperto nel biennio 2022–2023.
In assenza di un cambio di passo sulle politiche salariali, fiscali e industriali,
il rischio concreto è che l’Italia resti in una zona grigia:
niente più grande emergenza inflattiva, ma neppure un vero riscatto di salari,
ceto medio e nuova occupazione giovanile.
Cosa servirebbe davvero per uscire dall’emergenza
Il dibattito tra economisti, sindacati e imprese converge su alcuni fronti che non sono più rinviabili.
Per spezzare l’emergenza salariale servono misure coerenti e di medio periodo, non bonus estemporanei.
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Rafforzare la contrattazione collettiva:
garantire che i contratti di riferimento siano quelli firmati dalle organizzazioni più rappresentative,
contrastare i contratti “pirata” e incentivare la contrattazione di secondo livello legata a obiettivi
di produttività, innovazione e qualità del lavoro.
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Affrontare il tema del salario minimo:
definire una soglia legale o, almeno, criteri stringenti di adeguatezza dei minimi contrattuali
per evitare che interi segmenti di lavoratori restino in condizioni di povertà lavorativa.
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Tagliare stabilmente il cuneo fiscale:
rendere strutturali le riduzioni del prelievo sui redditi medio-bassi,
in modo che l’aumento di stipendio non venga subito eroso da tasse e contributi.
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Investire in produttività e competenze:
più formazione, incentivi all’innovazione, sostegno agli investimenti tecnologici
e organizzativi nelle Pmi. Senza un salto di produttività, ogni aumento salariale
rischia di restare episodico o di scaricarsi sui prezzi.
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Politiche attive e sostegno ai giovani:
servizi per l’impiego realmente efficaci, orientamento, transizioni rapide dalla scuola al lavoro,
incentivi all’assunzione stabile. Perché un mercato del lavoro dominato dagli over 50,
con giovani ai margini, è economicamente fragile e socialmente squilibrato.
Senza un intervento deciso su questi fronti, l’Italia rischia di consolidare un modello in cui
si lavora di più, più a lungo e peggio pagati.
La questione salariale non è più un capitolo specialistico di politica del lavoro:
è il cuore del problema economico e sociale del Paese.