L’87% degli occupati in Italia è certo di dedicare troppo tempo al lavoro. Il 64,4% ritiene che il lavoro serva solo ad avere le risorse economiche necessarie a vivere (quota che sale al 69,7% nel caso dei giovani). A livello globale, il 62% dei Millennials (i nati cioè nel periodo 1981-1996), afferma che il lavoro è centrale per la propria identità, ma tra i più giovani (la Generazione Z, composta dai nati tra il 1997 e il 2012), solo il 49% ha la medesima opinione. Sono alcuni degli spunti, provenienti dalle più recenti ricerche, discussi oggi nel corso dell’incontro “Il senso del lavoro oggi”, organizzato da Unioncamere e Fondazione per la sussidiarietà. All’evento, al quale hanno partecipato il presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra, e il presidente del Cnel, Renato Brunetta, è stato aperto dal presidente di Unioncamere, Andrea Prete e chiuso dal presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, Giorgio Vittadini. All’incontro hanno preso parte, tra gli altri; Giorgio De Rita, segretario generale del Censis; Tiziano Treu, professore emerito alla Università Cattolica di Milano; Luca Antonini, giudice della Corte costituzionale; Giuseppe Tripol, segretario generale di Unioncamere.
Unioncamere: centrale per la propria identità ma serve equilibrio con la vita privata
“Rimettere la persona al centro dell’impresa e dell’economia è la grande sfida di questa epoca - afferma Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà -. Per farlo occorre ridare valore al lavoro, l’azione umana che cerca di rispondere ai bisogni e ai problemi che emergono dalla vita. Bisogna quindi contrastare sia la teoria neo-liberista che subordina il lavoro al profitto, troppo spesso speculativo, sia l’assistenzialismo che ne umilia il valore". "I principali obiettivi da raggiungere in modo sussidiario nelle politiche a sostegno del lavoro sono quattro. Primo l’incremento delle opportunità di lavoro, perché la prospettiva non riguarda l’alternativa tra sviluppo senza lavoro e lavoro senza sviluppo, ma quella di un declino senza lavoro. Secondo: una maggiore accessibilità alle offerte di lavoro esistenti. Terzo: il sostegno a chi è senza occupazione, soprattutto con la formazione. Quarto: una distribuzione più equa ed efficiente del reddito”, aggiunge Vittadini.
“Un indicatore delle grandi trasformazioni del mondo del lavoro in Italia proviene dal Sistema Informativo Excelsior realizzato da Unioncamere e Anpal - ha ricordato il presidente di Unioncamere, Andrea Prete (nella foto) -. Mi riferisco al crescente mismatch tra domanda e offerta di lavoro, che, nella sua attuale dimensione, è un fenomeno preoccupante. Già prima del Covid la difficoltà per le imprese di reperire nel mercato del lavoro le figure professionali ricercate riguardava poco di più di un quarto delle possibili assunzioni. Ma questo fenomeno è cresciuto in maniera dirompente a partire dalla fase di ripresa del post pandemia arrivando a interessare oggi circa la metà dei profili lavorativi richiesti”.
“Negli ultimi 15 anni, il mondo del lavoro ha subito molti cambiamenti - ha sottolineato il segretario generale di Unioncamere, Giuseppe Tripoli -. L’occupazione è cresciuta molto meno che nel resto della Ue (+0,9% tra il 2007 e il 2022 a fronte del +7,3%), tanto che il tasso di occupazione attuale supera di poco il 60% a fronte di una media Ue di circa il 70%. Ad aumentare è stata soprattutto l’occupazione femminile (+7,5% nel periodo), quella dei laureati (+5,2%) e degli stranieri (+1,6%) mentre per i giovani il dato è fortemente negativo (-26,2%). In questo scenario – afferma Tripoli – ci sono diversi elementi che stanno modificando il senso del lavoro, soprattutto tra i giovani. Tra questi, la volontà di raggiungere un migliore equilibrio tra vita privata e impegno professionale. Per questo tante imprese stanno cambiando le proprie policy nei riguardi del personale, agevolando modelli organizzativi più flessibili e favorendo la crescita professionale dei propri dipendenti”.
Ma cosa si cerca nel lavoro oggi? Sicuramente solidità economica (il 44,2% degli occupati in Italia, però, considera la retribuzione non adeguata alle proprie esigenze, aspetto peraltro confermato dall’allargamento di 34 punti percentuali della forbice tra aumento dei salari negli ultimi 15 anni e aumento dei prezzi di alimentari ed energia; un giusto equilibrio tra vita e lavoro (fattore fondamentale per il 58% degli italiani); la condivisione dei valori dell’azienda (essenziale per il 48% dei lavoratori); la sicurezza (il 66% dei lavoratori rifiuterebbe un nuovo ruolo se non avesse adeguate garanzie al riguardo). Spinta ad ottenere un salario più elevato (45%), migliore conciliazione vita-lavoro (35%), maggiori opportunità di carriera e di sviluppo delle competenze (34%), flessibilità negli orari di lavoro e accesso allo smart working (30%) le principali motivazioni che spingono a dare le dimissioni e cambiare posto di lavoro. Un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto una portata considerevole tanto da venire definito come “le grandi dimissioni”. Questa dinamica che ha interessato anche il nostro paese dove le dimissioni richieste dai lavoratori sono aumentate del 13,9% nel 2022 rispetto al 2021 (+269mila), sebbene a inizio 2023 si stia assistendo a un certo rallentamento (-3,7%, pari a -19.307 dimissioni nel primo trimestre 2023 rispetto al primo trimestre 2022). Per rallentare questo esodo, le imprese sono scese in campo. Come mostra una indagine di Unioncamere e Centro studi Tagliacarne, il 66% delle imprese adotta pratiche per trattenere i talenti in azienda: il 63% punta sugli incentivi economici; il 50% su un miglior equilibrio vita-lavoro; il 45% sulla valorizzazione del ruolo e l’aumento di autonomia del lavoratore; il 15% sullo sviluppo del capitale umano attraverso attività di formazione. Forme nuove, quindi, di dialettica lavoratore azienda, che stanno producendo risultati. Il 24% delle imprese che adottano più iniziative per trattenere i talenti prevede un aumento della produttività nel 2024, contro solo il 14% del resto delle altre imprese. Certo il lavoro sta cambiando, in tutto il mondo. La tecnologia è tra i motori di questa trasformazione. La tecnologia infatti modifica l’organizzazione del lavoro (i 570mila lavoratori italiani in smart working nel pre-Covid, sono diventati 5,3 milioni nel post-Covid); modifica e amplie le forme di lavoro (in Italia circa 700mila persone lavorano attraverso piattaforme digitali); incide sulle competenze richieste agli occupati (entro il 2025, nel mondo, per il 73% dei lavoratori saranno necessarie attività di re-skilling e up-skilling). Un problema che per l’Italia si traduce in mismatch, difficoltà di incontro tra domanda e offerta di occupazione. Un fenomeno peraltro diffuso tra i Paesi avanzati (l’Italia è al 69° posto, su 133 Paesi mondiali, per facilità delle imprese nel trovare le figure professionali con le competenze richieste), ma che negli ultimi anni è in forte aumento: dal 2019 a settembre 2023 la difficoltà di reperimento di figure professionali è passata dal 26% al 48% delle opportunità offerte dal sistema produttivo.