Terrorismo: la Francia si sente in guerra e prepara la risposta

- di: Diego Minuti
 
Da quale punto di vista lo si guardi, l'attentato di Nizza (l'ennesimo, verrebbe da dire sul suolo francese) pone il Paese, di fronte al terrorismo di matrice islamica, davanti a scelte importanti, che forse si pensava di potere rinviare per individuare gli strumenti più efficaci per rispondere agli attacchi connotati da fanatismo religioso.

Di per sé, l'attentato alla basilica di Nizza non ha niente di nuovo rispetto ad altri che l'hanno preceduto e che hanno avuto come obiettivi luoghi cari al culto cattolico. Ma in questo caso la reazione della società civile francese sembra saldarsi con quella della quasi totalità della classe politica, entrambe stanche di assistere a queste esplosioni di violenza e, dopo, a fare da algidi notai della contabilità di morti e feriti, oltre che degli sfregi ad una religione che resta ancora maggioritaria nel Paese.

Se la carica vale ancora qualcosa per definire il profilo di un esponente politico, le parole del ministro dell'Interno, Gérald Darmanin, giovane leone dei macroniani, devono essere valutate con attenzione perché, nella loro sostanza, preannunciano un cambio di strategia della risposta dello Stato, conseguenza di una nuova consapevolezza, che è poi la traduzione in una sola parola del comune pensare dei francesi: guerra.

Un concetto, siamo in guerra, non nuovo nella Francia repubblicana che, ai tempi dell'Indipendenza algerina, si ritrovò, in casa, il seme della violenza armata. Contro l'Oas (Organization armé sécrete), composta da irriducibili difensori della Algeria come suolo patrio, la Francia scese in guerra, seguendo l'appello del suo presidente, De Gaulle. E, come in tutte le guerre, i morti furono tanti, e non solo in azioni armate, ma anche perché mandati sulla ghigliottina dall'inflessibile generale.

Ma, si potrebbe dire, che c'è guerra e guerra, e quella che Darmanin disegna è contro un nemico che non ha uno schieramento, che non ha divise, che sceglie bersagli in uno spettro che ne contiene centinaia di migliaia (e quindi che non si possono presidiare e difendere) e che, per assurdo che possa apparire, non ha nemmeno una ideologia o un quadro politico cui rifarsi.
Però questi "nemici" ci sono e si manifestano vestendo spesso gli abiti di chi, a rigore di logica giudiziaria, di tutto può rendersi responsabile meno che di un atto armato. Il ministro dell'Interno parla esplicitamente di "guerra" che deve essere dichiarata contro un nemico che agisce all'interno del Paese, ma anche fuori, facendo un riferimento nemmeno tanto implicito a chi, proprio nelle ultime settimane, s'è fatto capofila di una battaglia ideologica (almeno al momento) contro il laicismo della Republique.

E smettendo i panni del Ministro per tornare ad indossare quelli del politico, Darmanin ha bollato l'islamismo (non, quindi, l'islam inteso come religione) di "fascismo del ventunesimo secolo, un estremismo che dobbiamo combattere". Le parole del ministro dell'Interno , quindi, sembrano segnare un innalzamento del livello dell'azione di contrasto all'integralismo islamico armato che sarebbe, quindi, combattuto non solo con le armi del codice penale, ma anche alla luce di un ipotetico pericolo per l'integrità nazionale. Un discorso che potrebbe portare lontano, anche perché le leggi anti-terrorismo e gli strumenti riconosciuti alla polizia giudiziaria in questa materia sono già amplissimi. Non ancora comunque al livello del Patriot Act, varato negli Stati Uniti dopo gli attentati del settembre del 2001 e che ha portato a distorsioni del diritto, come l'uso della coercizione a Guantanamo.

La militarizzazione della lotta al terrorismo islamico (reclamata a gran voce dalla destra francese) è forse l'ultimo passo che una democrazia si può concedere per sconfiggere un nemico che è sfuggente e che, nella multietnicità della società francese, trova una solidarietà che altrimenti gli sarebbe negata. La rete solidale che i musulmani stendono nei Paesi in cui sono presenti se, da un lato, è l'esempio di applicazione totale delle raccomandazioni del Profeta, dall'altro spiega come migliaia di clandestini, alcuni animati da pensieri che con il Corano non hanno a che spartire, possa scomparire dal radar della polizia, fidando su principi di accoglienza che però possono sfociare nella complicità.

Se la conoscenza di Emmanuel Macron, attraverso i suoi discorsi, ha insegnato qualcosa, la risposta della Francia arriverà, non subito, ma sarà decisa, pur se non necessariamente sfocerà in un presidio militare del Paese. Una lezione per chi, dentro l'Esagono, non sottostà alla legge, ma anche per chi, fuori, lontano, considera la Francia un nemico e, contro di esso, si ritiene autorizzato ad usare tutte le armi, compreso il fanatismo religioso.
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