L'attualità degli scacchi, i "Mind Games" che spiegano la vita
- di: D.M.
Credo che non ci sia sport più crudele degli scacchi perché difficilmente non si legge un senso di onnipotenza nel giocatore che
determina la caduta definitiva delle difese dell’avversario, con il
Re in ginocchio. Un gioco in cui ogni mossa non è mai fine e sé
stessa, ma è una ininterrotta e reciproca prova di forza, che si
concretizza in strategie, tattiche, diversivi, psicologia, immagini,
espressioni. Come sempre accade, da qualche secolo a questa parte, degli scacchi si torna a parlare ciclicamente, quasi che essi vadano in letargo per quanto riguarda l’attenzione di chi giocatore
non è, per risvegliarsi, inaspettatamente, e rimettersi al centro
del villaggio mediatico. Come sta accadendo negli ultimi mesi,
con il successo - forse anche inatteso, ma certo non arrivato per
caso, conseguenza di una sapiente fusione di tutti gli elementi
che calamita l’interesse dello spettatore - di una serie su Netflix
“La Regina degli Scacchi” in cui la protagonista è una giocatrice,
giovane e bravissima.
Questo successo non è certo
una sorpresa perché gli scacchi restano lì, come sempre, calamitando nell’immaginario collettivo (che segue sempre gli stereotipi) passioni e frustrazioni che accompagnano l’evoluzione del
giocatore. Che può restare un buono scacchista, capace di belle
partite, ma che, se gli manca il “quid”, non scalerà le vette di una
sfida che è prima con sé stessi e solo dopo con l’avversario. Anatolij Karpov, che degli scacchi è stato il migliore a livello mondiale, non fa sconti allo sport che lo ha reso famoso (e certo anche
ricco): “Negli scacchi c’è tutto: amore, odio, desiderio di sopraffazione, la violenza dell’intelligenza che è la più tagliente, l’annientamento dell’avversario senza proibizioni. Poterlo finire quando
è già caduto, senza pietà, qualcosa di molto simile a quello che
nella morale si chiama omicidio”.
Esagerato? Non proprio. Quando, alla fine degli anni Sessanta, gli scacchi erano mediaticamente
un fenomeno con pochissimo appeal intorno a loro si determinò
una attenzione parossistica con il crescere di un antagonismo che
vedeva contrapposti l’americano Bobby Fisher al sovietico Boris
Spassky. “Sovietico” e non solo perché all’epoca l’Urss era ancora
in vita (e lo sarebbe stato per un paio di decenni ancora), ma per
il semplice motivo che Spassky era il simbolo di un Paese che, nel
clima della Guerra fredda, si sentiva investito della sacra missione
di sconfiggere gli Stati Uniti su tutti i campi. Sport compresi, e
senza porsi limiti morali, come dimostravano molti atleti sovietici
gonfiati come vitelli da dosi di steroidi di cui avrebbero pagato le
conseguenze dell’uso prolungato ed abnorme, con malattie e sindromi. Quando non ne modificavano le caratteristiche di genere,
riducendoli (soprattutto le atlete) quasi a fenomeni da baraccone, in una esplosione di muscoli e peli in luoghi non “tradizionali”
per una donna.
Come le mitiche sorelle Press, Tamara ed Irina, che
fecero incetta di medaglie e record nell’atletica leggera, sempre seguite dal sospetto su quale fosse il loro genere, in un momento
storico in cui questa distinzione era solo sussurrata. Ma il sospetto
li seguì sempre (soprattutto per Tamara, 1,80 per oltre cento chilogrammi di grasso, ma anche tantissimi muscoli) tanto da venire
perseguitate dal soprannome di “fratelli Press”. Ma gli scacchi,
gioco che è una guerra, non una battaglia, erano anche l’occasione per dimostrare la supremazia sovietica e d’altra parte, sino a
quando le storie e le vite di Fischer e Spassky non si incrociarono,
nell’algida sede neutrale di Reykjavik, i sovietici erano, ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale, i campioni del
mondo in carica. Alla fine di uno scontro titanico tra due modi di
interpretare lo sport, ma anche di mentalità, Bobby Fisher vinse e
mai sconfitta fu più dura da metabolizzare per l’Impero dell’est.
Gli scacchi vengono spesso utilizzati come metafora della vita e
furbescamente la serie di Netflix mischia
l’interesse verso il
gioco con dei temi
che fanno sempre
presa sullo spettatore medio: la sofferenza di una giovinezza
in cerca di affetto; il
riscatto; il successo; i
lati oscuri della personalità. Ma forse,
prima ancora che la
trama intricata di
una serie tv di enorme successo, a fare
tornare desta l’attenzione sugli scacchi è
la loro stessa essenza, quasi che siano la
metafora della vita,
di tutte le vite. La
crudeltà (intesa come
feroce determinazione nell’annientare
l’avversario) che sta
alla loro base, il fatto che, a meno che
non si giunga ad una
situazione di patta,
uno dei contendenti
debba soccombere, è il canovaccio che spesso condiziona la maggior parte delle esistenze umane. Ed anche dopo.Il topos del giocatore di scacchi di
alto livello disegna una persona che vive solo per il gioco, che nella quotidianità non fa altro che elaborare, analizzare le vecchie
partite per evitare di incorrere in errori che, racchiusi nel recinto
delle 64 caselle, non si devono assolutamente replicare. Come Antonius Block, il tetro cavaliere de ‘’Il settimo sigillo” diretto da
Ingmar Bergman, che, pur di ritrovare il suo “sé stesso”, perso
nelle mattanze passate alla storia come Crociate, chiede ed ottiene dalla Morte che lo aspetta sulla spiaggia per portarlo con
lei di potersi giocare a scacchi il tempo necessario a ritrovare la
speranza. Una partita angosciante (tra Antonius, interpretato da
Max von Sydow, e la Morte, cui diede fattezze Bengt Ekerot), tra
atteggiamenti ieratici e mosse lentissime rese di lancinante bellezza dal bianco e nero. Il cinema si è occupato spesso degli scacchi, solo raramente mettendoli al centro di un film.
Come ‘’Pawn
sacrifice’’ (molto meglio il titolo originale rispetto a quello scelto per il mercato italiano, ‘’La grande partita’’, forse dettato dal
dubbio che si potesse equivocare sul termine “pedone”) che ha
ricordato lo scontro titanico tra Fischer e Spasski. La maggior parte delle volte il cinema ne ha fatto corollario di altre storie. Come
nel secondo film della saga di 007, “Dalla Russia con amore”, in
cui, nelle battute iniziali, un campione russo, Kronstejn - al soldo
della Spectre per elaborare i piani dell’organizzazione criminale
- vince la sua partita. Al giocatore diede il suo volto luciferino un attore polacco, Vladek Sheybal, un onesto mestierante dello
spettacolo. Piccolo, segaligno, con un perenne ghigno. L’ideale
per descrivere il prototipo (agli occhi della gente) del giocatore
di scacchi.
Una descrizione che non è mai piaciuto a chi di scacchi
e per gli scacchi vive. Come ha scritto un altro dei grandi degli
scacchi, Gary Kasparov, in un libro del 2007 (ma la definizione
regge ancora in modo egregio): “È difficile pensare a qualcosa di
più paradossale del contrasto tra la reputazione del gioco degli
scacchi e quella del giocatore di scacchi. Gli scacchi sono considerati un simbolo universale di intelligenza e complessità, raffinatezza e astuzia. Eppure l’immagine del tipico giocatore di scacchi
continua a essere quella di un eccentrico che a volte rasenta la
psicosi. In molti paesi occidentali il classico giocatore di scacchi è
spesso immaginato come un omino rachitico o un genialoide misantropo”. Qualcuno, come Woody Allen (“A scuola mi esclusero
dalla squadra di scacchi a causa della mia statura”) ha cercato di
esorcizzare l’immagine che la gente ha degli scacchisti, ma lo ha
fatto sempre con il rispetto che il gioco merita. Per molti la difesa
siciliana, la trappola siberiana, il gambetto di donna, il cavallo
eterno, il fianchetto, lo zugzwang, le torri raddoppiate, la mossa sigillata, lo zwischenzug sono termini che sfiorano l’esoterismo. Per lo scacchista sono semplicemente l’essenza di un modo
di pensare ed agire. Qualcosa che è molto vicino alla vita.