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Ci sentiamo soli anche in mezzo agli altri: ecco perché

- di: Bruno Coletta
 
Ci sentiamo soli anche in mezzo agli altri: ecco perché
Nell’epoca delle chat infinite e dei cuori su Instagram, cresce la solitudine mentale: il paradosso del “sempre connessi ma mai davvero vicini”.
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Non è solitudine sociale: è solitudine interiore
Puoi avere mille follower, chattare a tutte le ore, ricevere decine di like. Eppure, sentirti vuoto. Isolato. Non capito. È il paradosso del nostro tempo: circondati da notifiche, ma orfani di presenza autentica. Non si tratta solo di avere qualcuno intorno, ma di sentirsi veramente visti, accolti, riconosciuti. La psicologia chiama questa condizione “solitudine percepita” e la distingue nettamente dall’isolamento fisico: puoi essere solo in compagnia e al tempo stesso accompagnato nella solitudine.
Secondo un’indagine condotta da Ipsos per la Giornata della salute mentale 2024, il 59% degli italiani tra i 18 e i 35 anni ha dichiarato di “sentirsi spesso solo anche in presenza di amici o familiari”. Un dato che fa riflettere, ma che soprattutto interpella le modalità di comunicazione nell’era digitale.
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Quando i messaggi sostituiscono gli sguardi
“Parliamo tanto, ma ascoltiamo poco. La comunicazione online ha reso tutto immediato, ma anche più superficiale”, osserva lo psichiatra Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano. “Il problema non è la tecnologia in sé, ma l’uso che ne facciamo. Chat e social network non bastano a costruire legami profondi, anzi spesso creano una parvenza di relazione che alimenta frustrazione e solitudine”.
Uno studio pubblicato su “Current Opinion in Psychology” nel gennaio 2025 dimostra che le interazioni sui social sono percepite come meno autentiche rispetto a quelle dal vivo. Le persone che trascorrono più di tre ore al giorno sui social riportano livelli più alti di solitudine mentale, senso di vuoto e insoddisfazione relazionale.
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Il bisogno antico di sentirsi riconosciuti
A mancare, spiega la psicologa e docente dell’Università di Padova Monica Dalla Riva, è la “relazione riflessiva”: quella che ci fa sentire visti dall’altro non solo per ciò che mostriamo, ma per ciò che siamo davvero. “Quando siamo immersi in un flusso continuo di messaggi, stories, call, perdiamo il tempo lento dell’ascolto profondo. E questo ha un impatto diretto sulla nostra psiche, in particolare nei momenti di fragilità”.
La pandemia, in questo senso, ha segnato uno spartiacque. “Abbiamo imparato a vivere a distanza, ma ora fatichiamo a tornare davvero presenti l’uno per l’altro”, nota Dalla Riva. La ripresa delle relazioni in presenza non ha cancellato quel vuoto di fondo: molti giovani riferiscono di sentirsi “fuori posto”, anche quando sono tra coetanei.
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Boom di richieste d’aiuto tra gli under 30
Nel 2024, secondo i dati del Telefono Amico, le chiamate legate a sentimenti di solitudine sono aumentate del 38% rispetto all’anno precedente. La fascia d’età più rappresentata? I ragazzi tra i 15 e i 29 anni. “Il dato più preoccupante – spiega la portavoce dell’associazione, Elena Caselli – è che il 40% di loro non ha nessuno con cui parlare davvero. Nessun adulto di riferimento, nessun amico di fiducia”.
E intanto cresce il numero di studenti universitari che si rivolgono ai servizi psicologici d’ateneo. A Perugia, ad esempio, la richiesta è triplicata in tre anni. “Non cercano solo strumenti per affrontare l’ansia o lo studio”, spiega la psicologa Valeria Ciccarelli, “ma soprattutto qualcuno che li ascolti davvero, senza giudizio”.
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Più contatti, meno legami
Dietro l’aumento della solitudine mentale c’è anche un’illusione pericolosa: quella che basti essere raggiungibili per essere vicini. Ma la connessione tecnologica non equivale alla connessione emotiva. “Siamo più interconnessi che mai, ma anche più disconnessi da noi stessi”, ha commentato a Roma lo psicoterapeuta Luca Mazzucchelli, in occasione del Festival della Psicologia (15 maggio 2025).
Il risultato? Rapporti più fragili, senso di alienazione e un aumento della dipendenza da stimoli digitali per colmare il vuoto relazionale. “Il cervello – ricorda Mazzucchelli – ha bisogno di esperienze reali di empatia e risonanza emotiva, non solo di click”.
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Non bastano le emoji per dirsi “ti voglio bene”

La psicologia dell’attaccamento ci ricorda che il bisogno di connessione è primario, profondo, biologico. Ma oggi rischiamo di sostituire la profondità con la frequenza, la vicinanza con l’accessibilità. “Le emoji non sono abbracci, i messaggi vocali non sono carezze”, ha scritto la sociologa americana Sherry Turkle nel suo ultimo libro The Empathy Deficit, pubblicato a Boston nell’aprile 2025.
Serve tornare a relazioni vere, fatte di tempo, silenzi, vulnerabilità. Serve imparare di nuovo a essere presenti, non solo reperibili.
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Un nuovo lessico per abitare le relazioni
La soluzione non è demonizzare i social, ma riscoprire il valore della relazione autentica. E investire nella salute mentale come diritto universale, non come lusso per pochi. “La vera connessione inizia quando smettiamo di dimostrare e iniziamo a condividere”, dice con forza la psicoterapeuta romana Silvia Spinelli.
Per sentirsi meno soli, non basta stare con gli altri. Bisogna esserci davvero. Con mente, corpo, emozioni. Solo così la connessione può diventare presenza. E la presenza, cura.

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