Il generale Kruse paga il rapporto sui raid in Iran: chi non si piega alla narrazione presidenziale viene cacciato. L’America scivola verso una democrazia autoritaria in stile russo-cinese.
Il siluramento che pesa come un avvertimento
Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha annunciato il licenziamento del tenente generale Jeffrey Kruse, direttore della Defense Intelligence Agency (DIA), la più importante struttura di intelligence militare degli Stati Uniti. La spiegazione ufficiale parla di “perdita di fiducia”. In realtà, il nodo è tutto politico: Kruse è l’autore del rapporto che ridimensionava gli effetti dei bombardamenti statunitensi sui siti nucleari iraniani, un documento che contraddiceva platealmente la versione trionfalistica del presidente Donald Trump.
Il rapporto che irritò la Casa Bianca
Dopo i raid del 22 giugno contro gli impianti di Fordow, Natanz e Isfahan, Trump parlò di “distruzione totale” del programma nucleare iraniano. La DIA, guidata da Kruse, arrivò invece a una conclusione ben diversa: gli attacchi avevano causato danni significativi, ma il programma di Teheran risultava soltanto rallentato di alcuni mesi, non certo annientato. Quel giudizio, trapelato sulla stampa americana, scatenò l’ira del presidente. A distanza di poche settimane, la rimozione è arrivata puntuale.
Un messaggio al mondo dell’intelligence
Per i democratici, la vicenda è un segnale inequivocabile. Il senatore Mark Warner, vicepresidente della Commissione Intelligence del Senato, ha denunciato che “un’analisi onesta e basata sui fatti è quello che dovremmo desiderare dalle nostre agenzie. Quando l’intelligence viene distorta o messa a tacere, i nostri avversari prendono il sopravvento e l’America diventa meno sicura”, ha detto Warner. In altre parole: non si punisce Kruse, si manda un avvertimento a chiunque osi contraddire la narrazione presidenziale.
Le altre “purghe” di Trump
Non è un caso isolato. La rimozione di Kruse si inserisce in una serie di epurazioni che hanno colpito figure considerate “poco allineate”. A luglio Trump aveva già sostituito Erika McEntarfer, capo dell’ufficio statistico del Dipartimento del Lavoro, colpevole di aver pubblicato dati sull’occupazione poco graditi alla Casa Bianca, nominando al suo posto l’ultraconservatore E.J. Antoni. Sempre nell’estate 2025, era caduto anche il generale Timothy Haugh, a capo della National Security Agency e del Cyber Command, accusato implicitamente di scarso zelo politico.
Autoritarismo in salsa americana
Il tratto comune è evidente: la linea presidenziale diventa verità assoluta, e chi la mette in discussione perde il posto. È una concezione del potere che richiama più Mosca o Pechino che Washington. Trump ha trasformato il suo secondo mandato in una guerra contro l’autonomia delle istituzioni: dall’intelligence alle statistiche, la parola d’ordine è fedeltà, non competenza.
L’ex diplomatico Richard Haass, già presidente del Council on Foreign Relations, ha commentato su X: “Siamo entrati in una fase in cui la politica prevale sistematicamente sui fatti. È una minaccia non solo per la sicurezza nazionale, ma per la tenuta stessa della democrazia americana”, ha scritto Haass.
Un Pentagono sempre più politicizzato
Il siluramento di Kruse è stato accompagnato dalla nomina ad interim di Christine Bordine, sua vice. Ma il messaggio politico resta chiaro: l’intelligence non è chiamata a fornire scenari realistici, bensì a confermare le narrazioni presidenziali. Una logica che trasforma la DIA in un braccio propagandistico, più che in un organo di analisi critica.
Gli stessi rapporti interni sullo sviluppo tecnologico e sull’uso dei database di intelligence erano già stati contestati dalla Casa Bianca, che spingeva per l’adozione di piattaforme commerciali. Kruse aveva opposto resistenza, alimentando un’ostilità crescente.
Un futuro inquietante
Con questa rimozione, Trump non solo consolida il controllo politico sul Pentagono, ma lancia un messaggio al partito repubblicano e al suo elettorato: chi non si allinea è fuori. La trasformazione degli Stati Uniti in una “democrazia autoritaria” non è più una provocazione retorica: prende forma giorno dopo giorno, nei gesti concreti di un presidente che tratta le istituzioni come strumenti personali.
Il rischio è duplice: sul piano interno, un’erosione della fiducia nei dati e nelle analisi; su quello esterno, un’America sempre più imprevedibile e meno credibile agli occhi degli alleati. È lo scenario che Vladimir Putin e Xi Jinping hanno sempre sognato: un’America che, nel nome di “America First”, rinuncia al pluralismo e abbraccia la logica del leader infallibile.