Riduzione fiscale al centro della finanziaria, mentre la sanità pubblica regge a fatica: spesa al 6,3% del Pil, liste d’attesa e divario di almeno tre punti rispetto a Francia e Germania.
Il messaggio della finanziaria è chiaro: priorità ai tagli delle tasse. Una scelta che può aiutare i redditi, ma che lascia in secondo piano la spesa sanitaria, ferma attorno al 6,3% del Pil. Con questo livello di investimento il servizio universale viene garantito sempre più a fatica: tempi lunghi per visite e interventi, personale insufficiente, fuga verso il privato per chi può permetterselo.
Il quadro: cosa significa il 6,3% del pil
Il 6,3% del Pil è una soglia che non consente di assorbire inflazione sanitaria, invecchiamento della popolazione e rinnovi contrattuali senza tagliare altrove o accumulare arretrati. Significa ospedali sotto pressione, territori che faticano a garantire presa in carico e continuità assistenziale, e un sistema che rincorre l’emergenza anziché programmare.
Confronto europeo: tre punti in meno di Francia e Germania
Nei grandi Paesi UE la musica è diversa: Francia e Germania investono almeno tre punti di Pil in più in sanità. Con più risorse si ottengono personale più numeroso, tecnologie aggiornate, reti territoriali realmente funzionanti e tempi di accesso più competitivi. Il divario non è un dettaglio contabile: è capacità effettiva di curare.
Liste d’attesa e personale: dove si inceppa il servizio universale
Le liste d’attesa sono l’indicatore più visibile del corto respiro della spesa. Quando le risorse non bastano, si allungano i tempi, aumenta la rinuncia alle cure e si apre la forbice sociale. Senza un piano pluriennale di assunzioni e stabilizzazioni per medici, infermieri e professioni sanitarie, nessun intervento spot può reggere: gli straordinari aiutano, ma non sostituiscono organici adeguati.
Fisco contro servizi: il costo opportunità
Ogni euro destinato allo sconto fiscale è un euro in meno disponibile per ospedali, territoriale e prevenzione. Non si tratta di essere “contro” i tagli di imposta: si tratta di equilibrio. Senza un incremento stabile della spesa sanitaria, il beneficio in busta paga rischia di trasformarsi in costi maggiori per le famiglie (ticket, visite private) e in produttività persa per il Paese.
Welfare e nuove fragilità: rete più stretta, bisogni più larghi
La pressione su sanità e redditi si scarica anche sul welfare: nuclei fragili, working poor, anziani soli e famiglie con disabilità richiedono presa in carico continuativa, non bonus episodici. Una rete sociale efficace riduce gli accessi impropri in ospedale e rafforza la coesione: tagliarla o trascurarla è miope.
Cosa servirebbe adesso
Primo: fissare un obiettivo vincolante di spesa sanitaria su Pil e raggiungerlo in pochi anni, riducendo il divario con i partner europei.
Secondo: varare un piano triennale sul personale (assunzioni, formazione, incentivi alla permanenza nelle aree carenti) e riconoscere economicamente il lavoro nei reparti e nei territori.
Terzo: liberare la capacità produttiva del pubblico con agenda unica, più slot in orari estesi, interoperabilità reale dei CUP e trasparenza totale sui tempi di attesa.
Quarto: rafforzare il welfare locale (domiciliarità, supporto ai caregiver, servizi per disabilità e non autosufficienza) per evitare che tutto si scarichi sui pronto soccorso.
Qualche euro in più in busta paga oggi, mesi di attesa e più disuguaglianze domani
La priorità fiscale non può sostituire la priorità sanitaria. Con la spesa al 6,3% del Pil e un divario di almeno tre punti dai grandi Paesi UE, il rischio è evidente: qualche euro in più in busta paga oggi, mesi di attesa e più disuguaglianze domani. Se l’obiettivo è crescita e coesione, la risposta è una sola: investire strutturalmente in sanità e welfare.