La nostra biblioteca - Il debito della letteratura mondiale a Paul Auster

- di: Diego Minuti
 

Che la fine di Paul Auster fosse imminente lo si sapeva, perché era stato lui stesso a volere che la malattia, nella sua gravità, uscisse dal perimetro della riservatezza. Eppure, quando le agenzie hanno ''battuto'' - si diceva così un tempo, quando il rumore delle telescriventi segnava il trascorrere del tempo nelle redazioni - la notizia della morte, all'età di 77 anni, nella sua casa di Brooklyn, la tristezza ha preso il sopravvento, come se ad andarsene non fosse solo chi, nel tempo, ha accompagnato le nostre letture, imponendoci riflessioni che pensavamo non ci appartenessero, ma un amico, forse un po' burbero, forse un po' troppo duro con sé stesso e gli altri, ma di cui non si può fare a meno.

La nostra biblioteca - Il debito della letteratura mondiale a Paul Auster

Eppure, anche se si sapeva che il cancro ai polmoni lo stava divorando, quando la moglie, la scrittrice Siri Hustvedt, ne ha reso noto la morte, per tutti gli amanti della lettura, non necessariamente anche della sua, è stata una perdita, di cui forse avremo l'esatta percezione solo tra qualche tempo. Quando, per un processo involontario, confronteremo la sua scrittura con quella di coloro che si candideranno a sedere al posto, che lui ha lasciato vuoto, al tavolo dei grandi di questo secolo e anche del precedente.

Auster, negli anni, è stato descritto in molti modi, riconoscendogli un ruolo da protagonista nel panorama letterario, tanto da essere stato etichettato come una ''superstar'' (cosa che non necessariamente gli faceva piacere), che aveva dato la sua impronta alla scrittura, grazie anche alla sue invenzioni, all'abilità di cogliere, ma soprattutto descrivere, ciò che si cela nelle pieghe del carattere della gente, uomo o donna, intellettuale o meno, ricco o no. 

Di tutti Auster ha raccontato vizi e virtù, non facendo sconti e, soprattutto, mettendo da parte stereotipi o preconcetti.

Lui, che veniva dal New Jersey, aveva trovato la sua dimensione a New York, anzi proprio a Brooklyn. Al punto da essere definito come ''un guardiano del ricco passato letterario'' di questa porzione della Grande Mela. Tanto da diventare un'ispirazione per chi, romanzieri o aspiranti tali, a partire dagli anni '90 considerarono Brooklyn come il luogo deputato al nuovo rinascimento letterario americano, dopo il furore iconoclasta delle precedenti decadi.

I suoi romanzi, impastati, ha detto l'autrice e poetessa Meghan O'Rourke, di stranezza - ''quel tocco di surrealismo europeo'' -, diventarono linfa per l'ispirazione di molti e il successo dei pochi capaci di uscire vivi dal fagocitante panorama letterario di quegli anni. 

E dire che, come accadeva spesso ai romanzieri che si affacciavano sulla scena agli inizi deli anni '80, gli esordi non furono facili, anche per la durezza dei temi che Auster metteva al centro della sua scrittura. Come il logorante rapporto con il padre che raccontò nel suo memoir ''L'invenzione della solitudine''. 

Né del suo primo romanzo fu subito riconosciuta la profondità. 

Tanto che ''City of Glass'', poi divenuto il primo capitolo della celeberrima ''Trilogia di New York'', si vide sbattere la porta in faccia da ben 17 editori che solo dopo forse capirono l'enormità del loro errore, quando, nel 1985, pubblicato da una piccola casa editrice della California, aprì ad Auster la strada del successo. 

La ''Trilogia'' - poi racchiusa in un unico volume - è stata inserita tra i 25 romanzi newyorkesi più significativi degli ultimi 100 anni da T, la rivista di stile pubblicata dal New York Times.

"City of Glass" è la ''sinossi'' dell'opera di Auster, insistendo su un tema a lui caro (una perdita personale), in cui si mischiano il dolore, il mistero, il vortice sempre più avvolgente di una introspezione che porta alla follia. 

Come ha affermato Auster in ''A Life in Words'', ''la maggior parte degli scrittori è perfettamente soddisfatta dei modelli letterari tradizionali e felice di produrre opere che ritiene belle, vere e buone'', aggiungendo poi di avere ''sempre desiderato scrivere ciò che per me è bello, vero e buono, ma mi interessa anche inventare nuovi modi per raccontare storie. Volevo ribaltare tutto''.

Non amava le tastiere, scrivendo con una stilografica e su un grosso blocco di fogli: ''Le tastiere mi hanno sempre intimidito'', disse in una intervista del 2003.

"Una penna è uno strumento molto più primitivo - spiegò -. Senti che le parole escono dal tuo corpo e poi le inserisci nella pagina. Per me la scrittura ha sempre avuto quella qualità tattile. È un'esperienza fisica''. Poi passava tutto alla sua macchina per scrivere Olympia (un pezzo quasi per collezionisti) per trascrivere i suoi elaborati. Questo lungo percorso ''pratico'' non gli ha impedito di pubblicare un nuovo libro, a cadenza quasi annuale, scrivendo sei ore al giorno, spesso sette giorni alla settimana.

La sulla della sua produzione parla di 34 libri, tra cui 18 romanzi,  memoir e opere autobiografiche assortite, insieme a opere teatrali, sceneggiature e raccolte di racconti, saggi e poesie.

L'ultimo è stato ''Baumgartner'' (Einaudi - pag.160 - 17,50 euro).

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