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Milano, una morte che conoscevamo già

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Milano, una morte che conoscevamo già

La donna accoltellata a Milano è morta. Anche questa volta si dirà: tragedia, follia, gesto improvviso. Ma improvviso non è stato nulla. Non lo è mai. È solo l’ultimo capitolo di una storia che aveva iniziato a scriversi molto tempo fa, quando lui decise che la libertà di lei era un torto personale.

Milano, una morte che conoscevamo già

L’ex marito è stato preso dopo aver riacceso il telefono. Un piccolo clic sullo schermo, come se il gesto più quotidiano e banale servisse improvvisamente a inchiodare la violenza alla sua responsabilità. Accanto a lui, come una firma, il coltello: l’oggetto minuscolo e primitivo con cui certi uomini pretendono di cancellare un’intera esistenza, un “no”, una scelta.

La città che corre, ma non protegge
È successo a Milano, la città che ama raccontarsi meritocratica, moderna, internazionale, connessa. Ma sul piano più elementare — il diritto di non essere uccise per aver chiuso una relazione — è rimasta antica. Sotto i palazzi ristrutturati, dietro i coworking e i bistrot, sopravvive un’idea arcaica: la donna è tua finché non ti lascia. E se ti lascia, smette di essere una persona e diventa colpa.

Il linguaggio che nasconde il reato
Adesso arriveranno le parole di rito. Quelle che ogni volta trasformano un omicidio in sintomo esterno: “una lite degenerata”, “l’uomo non accettava la separazione”, “era sconvolto”, “non aveva precedenti”. Ci sarà perfino chi userà — con l’aria dell’agnello ferito — la parola gelosia, la più tossica fra tutte: l’alibi travestito da sentimento.

Perché la gelosia, in questa grammatica storta, è sempre sua. La libertà, invece, dovrebbe essere di lei. Ma quella scatola non contemplata — la libertà femminile — è proprio ciò che certi uomini non sopportano: non quando subiscono violenza, ma quando la sfuggono.

Non è cronaca: è serialità sociale
Ogni sera i telegiornali pronunciano queste notizie come frammenti, quando sono capitoli di un’unica storia. Non cambia mai nulla: lei muore, lui viene preso, il cerchio si chiude e si riapre altrove. Un’altra via, un’altra provincia, un altro balcone fiorito dietro cui c’è il copione identico.
È un’esecuzione dello status quo: la donna che lascia e, per questo, paga.

La vera notizia non è che un uomo ha accoltellato una donna. La vera notizia è che continuano a dirci che è un caso, quando è un sistema.

Il lutto muto delle altre donne
C’è una donna, in questo momento, che legge la cronaca e si riconosce nell’antefatto: non ancora nel finale, ma negli atti preparatori. Lei è ancora viva, ma sente il fiato corto dell’allarme. Forse dorme con il telefono sotto il cuscino. Forse non denuncia perché — prima ancora che la giustizia — teme la vendetta. Forse vive dentro una gabbia fatta di messaggi “amorevoli” che hanno già il tono del possesso.

A ogni femminicidio, per ogni morta c’è una viva che ha appena capito come potrebbe finire.

L’amore? Qui non c’entra mai
Si continuerà a dire che lui “l’amava troppo”. Ma l’amore, questo amore, non sfiora nemmeno l’orizzonte. Qui c’è proprietà, c’è la cultura millenaria del “tu sei mia”, e il suono più antico del mondo: “se non sei mia, non sarai di nessuno”.

Questa donna — come tutte le altre prima di lei — non è morta di coltello: è morta di permesso negato. Lo stesso che questo Paese promette alle donne con la voce, ma ritira con i fatti.

Finché diremo “tragedia”, continueremo a fingere che sia sfortuna. Ma è struttura. È ordine che non si vuole disfare. E ogni volta che fingiamo sorpresa, ne prepariamo già la prossima.

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