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Messico, dazi fino al 50% su Cina e Asia: mercati in allarme

- di: Jole Rosati
 
Messico, dazi fino al 50% su Cina e Asia: mercati in allarme
Messico, dazi fino al 50% su Cina e Asia: mercati in allarme
Tariffe su oltre 1.400 prodotti dal 2026, dall’auto all’acciaio, mentre il taglio Fed e il tonfo di Oracle gelano l’euforia delle borse asiatiche
 
(Foto: Claudia Sheinbaum Pardo, presidente del Messico)

Il Messico rompe con la sua tradizione liberal e vara una legge che autorizza dazi fra il 5% e il 50% su un ampio paniere di beni importati da Cina, India e altri Paesi asiatici che non hanno accordi di libero scambio con Città del Messico. La stretta arriva mentre i mercati digeriscono il taglio dei tassi Usa di 25 punti base e il crollo di Oracle, che zavorra l’hi-tech globale e manda in rosso le piazze asiatiche. 

Cosa ha deciso il parlamento messicano

La svolta è arrivata tra il 10 e l’11 dicembre: la Camera dei deputati ha dato il primo via libera nella notte, seguita dal Senato che ha approvato in via definitiva il pacchetto tariffario. La norma prevede che dal 1° gennaio 2026 il Messico possa applicare dazi fino al 50% su merci provenienti da Cina, India, Corea del Sud, Thailandia, Indonesia e, più in generale, da tutti i Paesi con cui non esistono accordi di libero scambio.

Il perimetro è vastissimo: si parla di oltre 1.400 voci doganali, con impatti mirati su settori strategici come automotive e componentistica, acciaio, tessile-abbigliamento, plastica, calzature, elettrodomestici, giocattoli, mobili, alluminio e vetro. La maggior parte dei prodotti non arriverà al tetto del 50%, ma si collocherà su aliquote fino al 35%; solo le categorie ritenute più “sensibili” avranno l’arma nucleare delle tariffe massime.

Politicamente, il provvedimento è passato con un’ampia maggioranza in Senato (oltre 70 voti favorevoli, poche decine tra contrari e astensioni), segno che la protezione dell’industria nazionale è oggi uno dei pochi terreni di consenso trasversale fra governo e buona parte dell’opposizione.

Gli obiettivi: protezione industriale, gettito e allineamento con Washington

Ufficialmente la mossa serve a difendere i produttori locali dall’ondata di import a basso costo, in particolare dalla Cina, che negli ultimi anni ha invaso il mercato messicano in settori come acciaio, tessile, plastica e auto. Secondo le stime allegate alla legge, il nuovo schema di dazi potrebbe generare tra i 3,7 e i 3,8 miliardi di dollari di entrate aggiuntive all’anno, risorse utili per ridurre il deficit e finanziare programmi sociali e industriali.

Ma le logiche non sono soltanto fiscali. I promotori del provvedimento insistono su due leve:

  • Riequilibrare la concorrenza per catene produttive chiave, come l’auto, che rischiano di essere schiacciate da componenti asiatiche sottocosto.
  • Incentivare il “nearshoring”: spingere le aziende a produrre in Messico, anziché importare da lontano, per sfruttare la vicinanza geografica agli Stati Uniti.

Un senatore dell’opposizione, vicino al mondo industriale, ha sintetizzato il punto: le tariffe, da un lato, mettono una barriera contro l’import aggressivo di alcuni comparti asiatici, difendendo posti di lavoro; dall’altro, rappresentano un’imposta indiretta che finirà in parte sui consumatori, con il rischio di spingere in alto alcuni prezzi al dettaglio.

Dal fronte governativo il messaggio è opposto: per un senatore del partito al potere, che presiede la commissione Economia, il pacchetto di dazi è presentato come uno strumento per orientare la politica industriale, rafforzare la presenza del “made in Mexico” nelle catene globali del valore e “guidare” l’economia verso una maggiore autonomia strategica rispetto all’Asia.

Il modello Trump: il Messico si allinea alla nuova guerra dei dazi

La scelta messicana si inserisce in un contesto internazionale in cui gli Stati Uniti hanno riaperto il fronte tariffario contro la Cina. L’amministrazione Trump ha rilanciato da mesi l’uso dei dazi come arma negoziale, minacciando da un lato nuovi balzelli su beni cinesi e, dall’altro, ventilando persino un ripensamento dell’accordo USMCA se partner come Messico e Canada non dovessero “collaborare” nel contenere l’espansione di Pechino nelle Americhe.

Per Washington il Messico è un tassello cruciale: ospita fabbriche di auto, elettronica e apparecchiature a forte integrazione nordamericana, ma è anche una porta d’ingresso privilegiata per merci asiatiche che possono essere rietichettate o lavorate e poi spedite negli Usa con condizioni agevolate. Limitare il flusso diretto di prodotti cinesi e asiatici diventa quindi un modo per ridurre il rischio di “triangolazioni” che aggirano le barriere Usa.

Non a caso, diversi analisti leggono la mossa come un atto di allineamento tattico a Washington alla vigilia di una nuova revisione dell’USMCA: mettere mano ai dazi oggi è un segnale di buona volontà verso la Casa Bianca, nella speranza di evitare contromisure americane su acciaio, auto o agroalimentare messicano.

La reazione di Pechino e dei Paesi asiatici

Dal lato cinese la risposta è stata immediata. Il ministero del Commercio di Pechino ha bollato il pacchetto messicano come una misura unilaterale e protezionista, che “mina seriamente” gli interessi del commercio bilaterale. Il ministero degli Esteri ha aggiunto che andare “contro la globalizzazione economica perseguendo il protezionismo” danneggia tutti e non porta benefici duraturi.

Il rischio di ritorsioni mirate non è escluso: Pechino potrebbe intervenire su settori sensibili per il Messico – agrifood, materie prime, alcuni input industriali – oppure portare il caso in sede WTO, aprendo un nuovo fronte di contenzioso.

Anche l’India è in allarme. Il Messico è uno dei suoi principali mercati per l’export di automobili e componenti, con volumi nell’ordine di quasi 2 miliardi di dollari. Case automobilistiche e associazioni di categoria indiane stanno già facendo pressione su Nuova Delhi perché apra un dialogo urgente con Città del Messico, nel tentativo di attenuare o rinviare l’impatto delle nuove tariffe.

Auto, acciaio e tessile: dove farà più male

Il cuore della partita è il settore auto. Il Messico è una delle grandi piattaforme mondiali per la produzione di veicoli destinati negli Stati Uniti, e negli ultimi anni una parte crescente della componentistica – dai cablaggi all’elettronica, fino a batterie e carrozzerie – arrivava proprio dalla Cina e da altri Paesi asiatici.

Con dazi fino al 35–50%, per molti produttori importare alcuni componenti chiave potrebbe diventare semplicemente antieconomico. Le alternative sono tre:

  • Ricollocare parte della produzione in Messico, investendo in nuovi impianti e fornitori locali.
  • Deviare gli ordini verso partner con accordi di libero scambio (per esempio nell’area nordamericana o in Europa).
  • Accettare margini più compressi sui modelli destinati al mercato nordamericano e latinoamericano.

Anche l’acciaio è in prima linea: da anni i produttori messicani accusano dumping e concorrenza sleale dei laminati e dei semilavorati asiatici. Il nuovo pacchetto tariffario fornisce loro un ombrello politico, ma rischia di aumentare i costi per chi utilizza acciaio importato nelle costruzioni, nelle infrastrutture e nella fabbricazione di macchinari.

Nel tessile-abbigliamento, il quadro è ancora più delicato: molte etichette messicane si appoggiano a fornitori asiatici per fasi critiche come filatura e tessitura. Dazi elevati potrebbero spingere le aziende a ristrutturare le proprie catene di fornitura o, nei casi peggiori, a ridurre linee di produzione meno redditizie.

Le catene globali del valore alla prova dei dazi

Per le catene globali del valore, la mossa del Messico è un’ulteriore conferma che l’era della globalizzazione “a basso attrito” è finita. I grandi gruppi che utilizzano il Paese come hub per servire il Nord America dovranno accelerare piani che in molti casi erano già sul tavolo: diversificare fornitori, aumentare la quota di contenuto locale, spostare una parte della produzione da Asia a Messico o Stati Uniti.

Per l’Europa, il quadro è ambivalente. Da un lato, si apre uno spazio competitivo per fornitori italiani ed europei di componentistica auto, macchinari, semilavorati in metallo e plastica, che potrebbero diventare alternative credibili ai player asiatici penalizzati dai dazi. Dall’altro, una nuova ondata di barriere e possibili ritorsioni può trasformarsi in maggiore volatilità dei costi e in un ulteriore livello di incertezza per chi esporta lungo catene che attraversano più continenti.

Taglio Fed da 25 punti base: sollievo breve, poi torna il nervosismo

Il cambio di rotta del Messico arriva nelle stesse ore in cui la Federal Reserve annuncia il terzo taglio dei tassi dell’anno: -0,25%, con il corridoio dei fed funds che scivola tra il 3,50% e il 3,75%. È una decisione accompagnata da tre dissensi all’interno del FOMC e da una comunicazione che, pur non escludendo altri interventi, suggerisce una fase di pausa e prudenza.

Alla notizia, Wall Street ha inizialmente reagito con entusiasmo: principali indici in rialzo, rendimenti dei Treasuries in calo, dollaro più debole contro euro, franco svizzero e yen. Ma la finestra di euforia si è rivelata breve, travolta poche ore dopo dalle notizie in arrivo da un colosso del software.

Oracle affonda e trascina giù la tecnologia globale

Il vero spartiacque per i mercati è stata infatti la trimestrale di Oracle. Il gruppo ha riportato ricavi e margini inferiori alle attese, un outlook più cauto e, soprattutto, un’esplosione degli investimenti in data center e infrastrutture per l’intelligenza artificiale, alimentati anche da nuovo debito. Il messaggio implicito: il conto della corsa all’AI arriva prima dei ritorni.

Il titolo ha perso oltre l’11% tra after-hour e pre-market, cancellando in poche ore una fetta significativa della capitalizzazione e riaccendendo i timori di una bolla AI gonfiata da valutazioni stellari e investimenti a leva. La scossa si è propagata immediatamente ai future sull’S&P 500 e sul Nasdaq, che hanno invertito la rotta nonostante il supporto del taglio Fed.

In Asia la seduta di giovedì si è aperta all’insegna del pessimismo: Tokyo ha visto vendite concentrate sui titoli legati all’intelligenza artificiale e all’hardware per data center; in Corea del Sud il Kospi è finito sotto pressione, con il campione nazionale dei chip costretto a restituire parte del rally accumulato negli ultimi mesi; anche a Hong Kong e Shanghai il comparto tecnologico ha guidato i ribassi.

Il risultato è un quadro schizofrenico: banche centrali in modalità “taglio prudente” e mercati che oscillano tra l’idea di un atterraggio morbido e il timore che la grande scommessa sull’AI possa trasformarsi in una nuova bolla “dot-com 2.0”.

Mercati valutari e materie prime: dollaro giù, metalli preziosi su

Sul fronte valute, il taglio Fed e il tono meno aggressivo di Powell hanno indebolito il dollaro, che ha perso terreno contro euro, franco svizzero e yen. Il mercato dei future continua però a prezzare uno scenario in cui nel 2026 ci potrebbero essere almeno altri due ritocchi verso il basso, nonostante la banca centrale al momento indichi una sola riduzione aggiuntiva come base di riferimento.

Tra le materie prime, l’attenzione si è concentrata sui metalli preziosi, con l’argento che ha toccato nuovi massimi storici in un anno di rally clamoroso, e sull’oro in risalita dopo lo scostamento al ribasso dei tassi reali. Il petrolio è rimasto invece più ancorato alle dinamiche geopolitiche, con i prezzi sostenuti da notizie su tensioni in aree produttive chiave.

Cosa cambia da domani: rischi e opportunità

Nel breve termine, la guerra dei dazi versione 2.0 aperta dal Messico rischia di aggiungere un ulteriore livello di incertezza a un quadro già fragile: banche centrali in fase di aggiustamento, mercati azionari tirati dopo anni di rally, una nuova generazione di colossi tech che investe somme colossali sull’AI con ritorni ancora da dimostrare.

Per le imprese europee, e italiane in particolare, la fotografia non è solo negativa. Ci sono almeno tre possibili direttrici:

  • Finestra competitiva: fornitori di componentistica e macchinari possono proporsi come alternativa ai concorrenti asiatici colpiti dai dazi, specie in auto, acciaio e beni industriali.
  • Rischio costi e contratti: chi è incastonato in catene che passano da Messico e Stati Uniti dovrà rivedere contratti di fornitura, clausole di prezzo, coperture sul rischio cambio e materie prime.
  • Ripensamento degli investimenti: il Messico, pur più protettivo, resta una piattaforma privilegiata per l’accesso al mercato nordamericano; ma i piani di investimento dovranno tenere conto di uno scenario regolatorio più instabile.

Se la stretta tariffaria dovesse portare a contromisure da parte di Cina e altri Paesi asiatici, non è escluso un nuovo ciclo di riposizionamento delle catene globali, simile a quello già visto dopo i primi dazi Usa di qualche anno fa: più produzione vicino ai mercati finali, meno dipendenza da un unico Paese fornitore, maggiore attenzione al rischio geopolitico nella valutazione degli investimenti.

Per ora, il segnale è netto: il pendolo della globalizzazione torna verso il protezionismo. E il Messico, che per anni è stato il simbolo del libero scambio nordamericano, si scopre improvvisamente pronto a costruire il proprio muro tariffario contro Cina e Asia, in nome della competitività interna e dell’allineamento strategico con Washington.

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