In Italia cresce il numero di persone che, pur avendo un lavoro, non riescono a condurre una vita dignitosa. È il fenomeno dei cosiddetti “working poor”, lavoratori poveri, che rappresentano una contraddizione inquietante nel cuore di un’economia avanzata: il lavoro, anziché garantire un’uscita dalla povertà, diventa sempre più spesso una condizione di sopravvivenza instabile. Secondo i dati Eurostat aggiornati al 2023, il 12,7% degli occupati in Italia è a rischio povertà, ben oltre la media dell’Unione europea, che si ferma all’8,5%. Questo dato, lontano dall’essere episodico, si conferma stabile nel tempo, segnalando un problema strutturale e persistente.
Lavoro e povertà: il paradosso italiano che divide l’Europa
Il fenomeno ha origini complesse. In primo luogo, i bassi salari: il nostro Paese è tra quelli con la crescita più stagnante dei redditi da lavoro nell’ultimo decennio. A ciò si aggiungono l’altissimo tasso di part-time involontario — soprattutto tra le donne — e il dilagare dei contratti a termine o precari. Oltre il 10% dei lavoratori è impiegato in orari ridotti non per scelta, ma per mancanza di alternative, con picchi nelle regioni meridionali. Il Sud e le donne risultano infatti essere i soggetti più esposti alla povertà lavorativa, seguiti dai giovani e dai lavoratori dei servizi a bassa qualificazione.
Reddito basso, costi alti, welfare debole
Un’altra componente cruciale è la distanza crescente tra il costo della vita e la capacità reddituale. Affitto, bollette, inflazione alimentare: tutto corre più del potere d’acquisto reale. L’Italia, inoltre, presenta un sistema di welfare meno incisivo rispetto ad altri Paesi europei. Il supporto a chi lavora ma guadagna poco è ancora troppo parziale. Anche per questo sempre più famiglie con almeno un lavoratore si trovano costrette a chiedere aiuti esterni, siano essi bonus statali, sostegni caritatevoli o reti di solidarietà privata.
Il confronto con l’Europa e il nodo del salario minimo
Mentre in Francia, Germania e Spagna il fenomeno è in calo grazie a interventi mirati, l’Italia fatica a definire una strategia di contenimento. Tra le misure più discusse — e mai attuate — c’è l’introduzione di un salario minimo legale, più volte raccomandata anche dall’Unione europea. I partiti restano divisi, e nel frattempo l’erosione del valore del lavoro continua.
Serve un cambio di paradigma
Uscire da questo stallo richiede un cambio di prospettiva: il lavoro deve tornare ad essere leva di emancipazione, non condanna alla precarietà. Le politiche attive per l’impiego, la formazione continua, gli incentivi alla stabilizzazione e un salario dignitoso sono gli strumenti con cui rispondere a questo paradosso. Il rischio è che il lavoro, da diritto e pilastro della democrazia sociale, si trasformi in una trappola che cristallizza disuguaglianze e sofferenze. L’Italia, oggi, è chiamata a decidere se continuare ad accettare che si possa lavorare restando poveri, o se iniziare a costruire un sistema dove la fatica abbia almeno la ricompensa di una vita possibile.