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Decisione di Fitch sul debito Usa

- di: Antonio Cesarano, Chief Global Strategist di Intermonte
 
Decisione di Fitch sul debito Usa

La decisione di Fitch di declassare di un notch il rating del debito US è basata sulla prospettiva di un peggioramento dei conti pubblici nei prossimi tre anni. Paradossalmente, come nel caso di S&P nel 2011, il downgrade è arrivato ancora una volta ad inizio agosto. 

Le implicazioni della decisione di per sé non portano a pressioni per la vendita di Treasury, trattandosi comunque dei bond della prima economia al mondo con un rating prossimo al massimo. Tuttavia, alcune considerazioni aggiuntive possono essere di aiuto: da un lato ci sono considerazioni sullo stato di salute dei conti pubblici USA, dopo la lunga stagione di rialzi della Fed, dall'altro considerazioni sulle potenziali pressioni a vendere che possono arrivare da altre fonti.

  • Partendo dai conti pubblici:
    • il rialzo dei tassi della Fed e il conseguente rialzo dei tassi di mercato ha comportato un aumento del costo medio di circa $33.000 mld di debito, ora pari a circa 2,75%, al massimo dal 2012.
    •  In termini assoluti, la spesa per interessi è arrivata a raggiungere i $ 900 mld annui, ossia poco sopra l'ammontare recentemente messo nel budget di spesa militare. Allo stesso tempo, il deficit di bilancio/Pil è ricominciato a salire, passando da circa il 4% di metà 2022 all’8,5% di metà 2023.
    •  Tutto questo ha costretto il Tesoro Usa a rivedere sensibilmente al rialzo l'ammontare di emissioni per il trimestre in corso, portandole da 730 a ben $1000 mld, anche in vista delle minori entrate fiscali su uno scenario di rallentamento economico.

In ogni caso, il downgrade di Fitch non mette di per sè pressioni di vendita sui Treasury, visto anche l'elevatissimo rating di cui ancora beneficiano. 

Tuttavia, le pressioni al rialzo dei tassi nel breve possono derivare innanzitutto da due fattori:

  • incremento dell'offerta di emissioni, come prima sottolineato;
  • recente decisione della banca centrale giapponese di consentire di fatto ai tassi dei titoli di Stato decennali nipponici di potersi spingersi fin verso l'1%, eliminando pertanto il tetto dello 0,5% presente da diversi anni;  
  • può sembrare una decisione che apparentemente non ha punti di collegamento con gli USA, ma in realtà i nessi di causa/effetto in questo caso sono molto forti. Questo perché il Giappone è il principale detentore al mondo di Treasury a lunga scadenza, per un importo pari a 1096 Mld$, già in netto calo rispetto alle punte record del 2021 di oltre $1300 Mld

  • Gli investitori nipponici, dopo la decisione della BOJ hanno ora molta più convenienza a rivolgersi ai titoli di Stato domestici in luogo dei Treasury. Apparentemente il tasso decennale US è molto superiore a quello nipponico (attualmente circa 4,10% vs 0,62%), ma la realtà è diversa: un investitore nipponico che acquisti Treasury decennali coprendosi dal rischio cambio, percepisce addirittura un tasso finale (ossia comprensivo del costo della copertura dal valutario) negativo di circa l'1,5%. 

In sintesi 

  • La decisione di Fitch di per sè non rappresenta un fattore di pressione alla vendita sui Treasury, trattandosi comunque ancora dei titoli della prima economia al mondo con un rating molto elevato. 
  • Le pressioni in vendita (in modo particolare sul segmento decennale) nel breve arrivano piuttosto da altri due fattori: 
    • L’incremento delle emissioni per finanziare il crescente deficit di bilancio 
    • Le potenziali vendite degli investitori giapponesi dopo la recente decisione della BoJ 
  • Questi fattori possono comportare come conseguenza un richiamo dal mondo tassi tale da portare volatilità sui mercati azionari dopo 5 mesi consecutivi di rialzo nel caso USA, in un contesto in cui la Fed, e in generale le principali banche centrali, stanno riducendo la liquidità in circolazione (sebbene rimanga in assoluto ancora molto elevata) per frenare le spinte inflattive. 
  • Sul fronte macro i rialzi a cui potremmo assistere da un lato aumentano la possibilità di un rallentamento marcato dell’economia, soprattutto in ottica 2024, senza escludere ancora l'ipotesi recessione, dall’altro rappresentano anche un potenziale freno ad un eccesso di manovre restrittive delle banche centrali (Fed in testa), anche per evitare ripercussioni eccessive sui conti pubblici. 
Tutto questo depone a favore di Fed e BCE che possono propendere per una pausa a settembre, accompagnando la decisione con un’avvertenza: la pausa non necessariamente sarà definitiva. Un modo per cercare di difendersi dal rischio di recrudescenza dell’inflazione e per frenare l’eccessivo effetto ricchezza derivante dalle borse, soprattutto in Usa, che oltre un certo livello, rischia di mettere a rischio la lunga lotta all’inflazione degli ultimi trimestri.
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