Dai raid sui narcos al “kill them all”: il fronte conservatore si spacca sulla guerra alle barche della droga.
Foto: (il ministro della Difesa Usa, Pete Hegseth).
Per mesi la Casa Bianca ha raccontato la campagna contro le imbarcazioni dei narcos nel Caribe e nel Pacifico come una guerra chirurgica per difendere gli Stati Uniti. Ora, però, a mettere sotto pressione il capo del Pentagono Pete Hegseth non sono più solo i democratici o i giuristi internazionali, ma gli stessi parlamentari repubblicani, sempre più irritati per il muro di gomma del ministero della Difesa su legalità, catena di comando e regole d’ingaggio.
L’ultimo segnale arriva da un incontro a porte chiuse al Congresso, dedicato proprio agli attacchi contro le navi sospettate di traffico di droga. I legislatori conservatori si aspettavano chiarimenti tecnici e un solido parere legale; si sono ritrovati davanti funzionari incapaci di rispondere alle domande chiave e, dettaglio che ha fatto infuriare molti di loro, nessun avvocato del Pentagono in sala. Un’assenza letta come scelta politica, non come svista burocratica.
Il briefing segreto che fa esplodere il malumore nel Gop
Nel briefing classificato – raccontato da fonti di entrambi i partiti – i membri del Congresso hanno insistito su tre punti: base legale dei raid, ruolo diretto di Hegseth nell’ordine di colpire e, soprattutto, secondo attacco contro i sopravvissuti di una barca già in fiamme.
Domande che si trascinano da settimane, da quando è emerso che il 2 settembre un’unità d’élite americana ha colpito una nave sospettata di trasportare droga al largo dell’America Latina, uccidendo undici persone. Due sono sopravvissute alla prima esplosione e sono state bersaglio di un secondo strike, ordinato per “assicurarsi che non restasse nessuno vivo” a bordo. È questo passaggio, più di ogni altro, a far parlare molti giuristi di possibile crimine di guerra.
Nel corso del briefing, i funzionari inviati dal Pentagono non sono riusciti a fornire spiegazioni convincenti su quale norma del diritto interno o internazionale copra l’uso ripetuto della forza letale contro sospetti narcotrafficanti, in assenza di un conflitto armato dichiarato. La scelta di non far partecipare i legali del Dipartimento ha fatto salire ulteriormente la temperatura: diversi repubblicani, secondo ricostruzioni filtrate dai corridoi di Capitol Hill, hanno detto di non essere più sicuri di poter difendere pubblicamente Hegseth.
Dall’ordine “kill them all” alla pioggia di raid
Il nodo politico nasce da un’inchiesta giornalistica che ha ricostruito la genesi della campagna. Secondo quelle ricostruzioni, prima del primo attacco Hegseth avrebbe dato un ordine verbale chiarissimo alle unità speciali dispiegate nel Caribe: non lasciare sopravvissuti. Da quel 2 settembre, la missione si è trasformata in una serie di raid aerei e missilistici in mare aperto, inquadrati dal Pentagono nell’operazione “Southern Spear”, parte della più ampia guerra contro le organizzazioni del narcotraffico in America Latina.
In pochi mesi gli Stati Uniti hanno condotto oltre una ventina di attacchi contro imbarcazioni etichettate come “vettori della droga”, colpendo sospette reti legate al Tren de Aragua venezuelano, a gruppi colombiani e ad altre organizzazioni definite “narcoterroriste”. Il problema, sottolineano numerosi osservatori, è che la Casa Bianca non ha mai diffuso prove verificabili a sostegno di queste accuse, né ha consentito un vero scrutinio indipendente su obiettivi e intelligence alla base di ogni colpo.
Sul piano giuridico, la giustificazione dell’amministrazione si regge su un’interpretazione molto ampia dei poteri del presidente in materia di difesa nazionale: i membri degli equipaggi vengono descritti come “combattenti illegali”, un’etichetta che permetterebbe – almeno nella lettura della Casa Bianca – di impiegare la forza letale senza dichiarazione formale di guerra né autorizzazione specifica del Congresso. Un’argomentazione che molti esperti considerano fragile e pericolosa.
Gli avvocati del Pentagono scompaiono dal Congresso
La scelta di presentarsi al Congresso senza i propri legali non è un dettaglio tecnico, ma il cuore del malcontento repubblicano. In un precedente incontro classificato, alla Camera, i deputati erano stati informati che sarebbero intervenuti gli avvocati del Dipartimento della Difesa per illustrare il parere giuridico che sostiene la campagna navale. Poco prima del briefing, però, la delegazione legale è stata richiamata indietro e sostituita da funzionari politico-militari, privi dell’autorità – e delle risposte – richieste dai parlamentari.
Secondo resoconti di partecipanti a quelle riunioni, i rappresentanti dell’amministrazione hanno offerto una spiegazione generica: la guerra alla droga non è una guerra “classica”, ma una forma di autodifesa contro chi alimenta la violenza e l’epidemia di overdose negli Stati Uniti. A domande più puntuali – quale base costituzionale, quali leggi federali di riferimento, quali limiti temporali e geografici – il briefing sarebbe scivolato nel vago, alimentando la frustrazione trasversale.
Non è un caso che più di un parlamentare, uscendo dalla sala, abbia parlato di “mancanza di trasparenza inaccettabile”. Nel campo repubblicano, in particolare, c’è chi teme di finire politicamente esposto: difendere pubblicamente Hegseth e la Casa Bianca, senza avere la certezza che gli ordini impartiti siano conformi alle leggi americane e alle convenzioni internazionali, espone a un rischio evidente nel caso in cui emergano ulteriori dettagli compromettenti.
Il fronte repubblicano si incrina: “Se i fatti sono veri, qualcuno deve andarsene”
A certificare che la crepa nel partito di Trump è reale sono le parole di alcuni senatori di peso. Figure di solito molto caute nel criticare un segretario alla Difesa nominato da un presidente repubblicano, ora parlano apertamente di “violazione del codice etico, morale e legale” se l’ordine di colpire i sopravvissuti fosse confermato.
Un senatore della maggioranza ha sintetizzato così il malumore: “Se i fatti resteranno quelli che appaiono oggi, qualcuno dovrà lasciare Washington”. Non è solo un avvertimento retorico: nelle commissioni competenti si sta già valutando se aprire un’indagine formale sul ruolo di Hegseth, sulla catena di comando che ha portato al secondo strike e sull’eventuale responsabilità dell’ammiraglio che ha guidato l’operazione.
Anche i vertici repubblicani del Senato hanno smesso di offrire assicurazioni piene. Alla domanda se mantengano fiducia nel capo del Pentagono, alcuni leader hanno risposto con formule prudenti, scaricando la valutazione su “altri”. Un modo elegante per dire che, almeno per ora, il sostegno politico non è più scontato.
La difesa di Hegseth: scaricare sull’ammiraglio e rifugiarsi nel “fog of war”
Dal canto suo, Hegseth ha provato una difesa a due tempi. In pubblico, al fianco di Donald Trump alla Casa Bianca, ha lodato l’ammiraglio che ha guidato l’operazione definendone “corretta” la decisione di affondare definitivamente la nave e “eliminare la minaccia”. In parallelo, però, ha cercato di prendere le distanze dal momento più controverso, sostenendo di non aver visto in diretta i sopravvissuti prima del secondo attacco.
Il segretario alla Difesa ha raccontato di aver seguito in tempo reale soltanto la prima parte del raid, per poi passare ad altri impegni “dopo un paio d’ore”, venendo informato del secondo strike solo in seguito. Da qui il suo richiamo al “fog of war”, la nebbia della guerra che renderebbe confusa la percezione di ciò che accade in operazioni complesse e rapide.
Questa versione, però, cozza con precedenti dichiarazioni attribuite allo stesso Hegseth in interviste televisive, in cui vantava di aver “seguito in diretta” la missione. Il risultato è un crescente scetticismo non solo tra gli avversari democratici, ma anche tra i repubblicani che vorrebbero difenderlo: la narrativa cambia troppo spesso per non alimentare sospetti.
Signalgate, fughe di notizie e un capo del Pentagono già indebolito
Lo scandalo delle barche della droga colpisce un Hegseth già in posizione fragile. Un rapporto dell’ispettorato interno del Pentagono ha appena documentato che il segretario ha violato le procedure di sicurezza usando un canale privato e non protetto – una chat su Signal – per condividere informazioni sensibili su operazioni militari in Yemen. Un giornalista, finito per errore nel gruppo, ha innescato il caso battezzato dai media “Signalgate”.
Il rapporto non arriva a parlare di divulgazione illecita di segreti, ma segnala una condotta che esponeva a rischi il personale americano. Hegseth ha minimizzato, liquidando l’inchiesta come una “piena assoluzione” e scherzando pubblicamente sulla vicenda. Il tono leggero, però, stride con la gravità delle accuse ora in campo: omicidi illegali, violazione delle leggi di guerra, abuso dei poteri presidenziali.
In questo contesto, ogni nuovo dettaglio sulla campagna navale diventa un tassello di un mosaico più grande: quello di un Pentagono guidato in modo politicamente aggressivo ma istituzionalmente disinvolto, che fatica a convincere persino i propri alleati in Congresso.
La questione di fondo: la guerra ai narcos è davvero una guerra?
Oltre al destino personale di Hegseth, la vicenda solleva un interrogativo di fondo: la guerra ai narcos può essere trattata come una guerra tradizionale? Molti esperti di diritto internazionale umanitario rispondono di no. Per parlare di conflitto armato, spiegano, servono livelli di violenza organizzata e continuità tali da equiparare i cartelli della droga a veri e propri eserciti. Non è questo – sostengono – il caso dei gruppi colpiti dai raid, per quanto spietati e pericolosi sul piano criminale.
In assenza di un conflitto riconosciuto, entrano in gioco le regole dell’uso della forza in tempo di pace e gli standard sui diritti umani: la forza letale dovrebbe essere l’ultima risorsa, impiegata solo quando c’è un pericolo imminente per vite umane. Nel caso della barca colpita a inizio settembre, diversi giuristi sottolineano che, una volta immobilizzata l’imbarcazione, la priorità avrebbe dovuto essere salvare i sopravvissuti e catturarli, non eliminarli con un secondo missile.
A rendere il quadro ancora più problematico è la totale assenza di transparenza pubblica: le prove di intelligence, i video integrali delle operazioni e la logica con cui vengono selezionati gli obiettivi restano segreti. Da qui la richiesta, sempre più insistente, che almeno il parere legale dell’amministrazione venga reso pubblico, in modo da permettere a giuristi, alleati e opinione pubblica di valutarne la tenuta.
Indagini del Congresso, dossier in arrivo e possibili scenari
Sul piano istituzionale, il prossimo passo sarà decisivo. Le commissioni Forze armate di Camera e Senato stanno raccogliendo documenti, richieste formali e testimonianze – a partire dall’ammiraglio che ha ordinato il secondo strike – per capire se aprire un vero e proprio procedimento d’inchiesta sul Pentagono. Si parla di audizioni pubbliche, di un possibile rapporto bipartisan e, nei casi più estremi evocati in privato, persino di ipotesi di impeachment nei confronti del segretario alla Difesa.
Trump, da parte sua, continua a difendere la campagna come strumento essenziale per colpire le reti del narcotraffico che alimentano l’epidemia di overdose negli Stati Uniti. Il presidente si dice favorevole a diffondere “tutto quello che c’è” sui video dell’operazione incriminata, ma finora il Pentagono non ha consegnato alle commissioni parlamentari il materiale richiesto in forma completa.
Lo scontro, dunque, si gioca su una linea sottile: quanto a lungo i repubblicani saranno disposti a difendere un’operazione presentata come guerra necessaria ai narcos senza poter dimostrare che sia stata condotta nel rispetto del diritto? E quanto tempo potrà resistere Hegseth, stretto tra la lealtà a Trump e la crescente irritazione di un partito che teme di pagare il conto politico e giudiziario della campagna?
Una crisi che va oltre il caso Hegseth
Qualunque sarà l’esito immediato – dimissioni, resistenza, compromesso – la vicenda delle barche della droga lascia un’eredità destinata a pesare a lungo. Perché mette a nudo un equilibrio sempre più instabile tra lotta al crimine transnazionale e rispetto delle regole di guerra, tra esigenze di sicurezza e ruolo di controllo del Parlamento.
Se il Congresso non riuscirà a imporre maggiore trasparenza e limiti chiari all’uso della forza in operazioni simili, il precedente creato nel Caribe potrebbe diventare un modello: campagne militari “a bassa visibilità”, condotte al riparo dal dibattito pubblico e giustificate in base a pareri legali segreti. È proprio questo scenario, più che il destino personale di Pete Hegseth, a inquietare molti tra i repubblicani che oggi – frustrati e sempre meno pazienti – iniziano a mettere in discussione la fiducia nel loro stesso capo del Pentagono.